Venerdì sera ho finalmente avuto l’occasione di assistere alla presentazione de “I Dannati della Metropoli – Etnografie dei migranti ai confini della legalità” e la fortuna di aver conosciuto personalmente il suo autore, ovvero l’antropologo Andrea Staid. Nel primo capitolo de “I Dannati della Metropoli”, che come si può evincere dal sottotitolo è una ricerca etnografica, Staid evidenzia il metodo di ricerca da lui utilizzato per analizzare le vite dei migranti all’interno del contesto metropolitano milanese e il rapporto tra migrazione e micro-criminalità che caratterizza quella che si è soliti definire “la città illegale”. Ed è proprio il primo capitolo quindi che sarà oggetto di sintesi e di spunto per questo articolo.
Il capitolo si apre con una domanda: “Che cos’è l’osservazione partecipante?”. Per chi non dovesse esserne a conoscenza l’osservazione partecipante è un principio che si è soliti attribuire all’antropologo polacco Bronislaw Malinowski, teorizzato e sperimentato inizialmente attorno agli anni 20 del ‘900, e che critica duramente la tradizione antropologica figlia dell’800 e l’approccio antropologico evoluzionista. L’osservazione partecipante è di fondamentale importanza per la ricerca etnografica in quanto permette all’antropologo/etnografo di trascorrere un lungo periodo di tempo a contatto diretto e costante con la comunità studiata e di partecipare quindi alle attività quotidiane del gruppo oggetto di studio direttamente sul campo. L’osservazione partecipante permette in questo modo di conoscere e comprendere direttamente la comunità studiata attraverso la prospettiva emica, ovvero la cultura comprensibile solamente dal suo interno e non dall’osservazione esterna e distaccata.
Inoltre l’osservazione partecipante è un metodo che permette all’etnografo di riportare all’interno dello studio e della ricerca non solamente il proprio punto di vista e le proprie considerazione, bensì rendere anche il punto di vista della cultura, della comunità o dei soggetti studiati. E questo processo è possibile solamente attraverso la creazione di legami e relazioni tutt’altro che superficiale tra osservatore e intervistato, tra antropologo e oggetto della ricerca.
Nonostante l’utilizzo di una prospettiva emica e dell’osservazione partecipante come metodo di ricerca etnografica l’antropologo non diverrà mai un membro della comunità da lui analizzata; tanto meno diverrà un osservatore neutro poichè l’antropologo non può e non deve abbandonare completamente il proprio etnocentrismo che è inevitabile, ma piuttosto sforzarsi di avere un atteggiamento critico del proprio etnocentrismo in modo da comprendere la limitatezza strutturale del proprio giudizio e delle proprie categorie culturali nel confronto diretto con quelle degli “altri”.
Tuttavia, pur sottolineando l’estrema importanza della ricerca sul campo come punto centrale della pratica etnografica, è impensabile per l’antropologo attuare una completa immedesimazione all’interno del campo di ricerca. Attraverso la pratica dell’osservazione partecipante quindi cessa anche la separazione tra osservatore e oggetto osservato, poichè in questo modo i due soggetti interagiscono, instaurano una relazione, partendo entrambi dal legame che hanno con il proprio specifico universo culturale e di riconoscimento.
Il principale problema dell’osservazione partecipante, come evidenziato da Andrea Staid, è quindi la soggettività dell’etnografo perchè in fin dei conti è lui stesso a fungere da strumento della ricerca, divenendo in questo modo una cultura che studia un’altra cultura. Anche se probabilmente la parte più difficile dell’osservazione partecipante è quello dell’analisi del materiale raccolta durante la ricerca, poichè è fondamentale riuscire a vedere la realtà studiata sia attraverso una prospettiva interna sia da una esterna.
Andrea Staid conclude il capitolo evidenziando che il suo approccio partecipativo e non-egemonico ha avuto come chiaro intento quello di rovesciare completamente la relazione di potere-dominio tra intervistato e intervistatore. Ed è proprio a questo che, a mio modesto avviso, dovrebbe puntare la ricerca etnografica e in generale l’antropologia attraverso la pratica dell’osservazione partecipante; ovvero arrivare ad annullare quasi completamente la distinzione tra osservatore e oggetto di studio e tendere sempre più all’instaurazione di una relazione profonda tra le due parti in modo da rendere la ricerca etnografica un processo innanzitutto soggettivo di auto-riflessione e di messa in discussione dei propri universi culturali di riconoscimento e perciò capace di aprire alla comprensione dell’altro e della sua alterità.
Quindi, e concludo, l’antropologia “deve essere considerata un sapere attraverso il quale sia possibile percepire una visione del mondo che consenta di comprendere tutti i possibili mondi culturali: di conoscere appunto, senza per forza riconoscersi” citando direttamente Andrea Staid.