di immersione nel selvatico e altre riflessioni in seguito ad una camminata…

di immersione nel selvatico e altre riflessioni in seguito ad una camminata…

“Il mondo selvatico ci chiede di conoscere il terreno, di fare un cenno di saluto a tutti gli animali, a piante e uccelli, di attraversare i torrenti e salire sui crinali e di raccontare una bella storia quando ritorniamo a casa”  (Gary Snider)

Questa mattina il cielo fuori dalla finestra era grigio, l’atmosfera uggiosa e umida. Le ore precedenti all’alba sono state infatti accompagnate da una incessante e intensa pioggia. Finalmente pioggia, in questo bizzarro febbraio dalle temperature fuori stagione e decisamente sopra la media. Ennesimo campanello d’allarme della crisi climatica e dell’ecocidio che stiamo commettendo.

Torniamo alla pioggia. Da quando ho aperto gli occhi e messo i piedi fuori dalla coperta, ho sentito scorrere nel mio corpo una tensione irrefrenabile ad uscire di casa e andare a camminare nel fuori.

Cielo uggioso, profumo post-temporalesco nell’aria e voglia di camminare. Un trittico indissolubile e perfetto.

Si perchè le giornate grigie, nuvolose, minaccianti pioggia, indecifrabili da sempre esercitano un fascino strano su di me, alimentando la mia voglia di mettere un passo davanti all’altro e lasciarmi alle spalle la porta di casa.

Sarà per l’odore dell’aria che cambia, per il profumo intenso della terra bagnata o per le molteplici sfumature dei colori del selvatico: so solo che una risposta univoca e convincente non l’ho mai trovata.

Preparo lo zaino con il minimo necessario. Un telo impermeabile di colore verde e blu, un paio di libri (uno dei quali, non a caso, è Le Antiche Vie, un elogio del camminare di Macfarlane) e il taccuino rosso su cui sto scrivendo queste parole. Zaino in spalla, scarpe ai piedi e si parte verso sentieri che si diramano e tra campi coltivati, boschetti e canali, lasciandomi alle spalle il mio piccolo centro abitato e le aziende chimiche che segnano il confine tra territorio rurale e insediamento urbano.

Come era facile aspettarsi, non incontro anima viva o quasi, se si esclude qualche padrone di cane obbligato a portare il proprio amico a quattro zampe a farsi un giro, così come vuole il contratto umano-animale domestico.

Frequento questi boschetti e questi campi da molti anni e posso dire con certezza che le persone non escono di casa in giornate come questa per venire a camminare da queste parti. Siamo una società che ha paura del cattivo tempo, forse perchè ormai troppo distaccati dal ciclo naturale degli eventi atmosferici per riuscire ad apprezzarli.

Mi addentro in uno dei miei boschetti preferiti, territorio di una tribù di frassini, betulle e pioppi che domina incontrastata. Territorio che vede ancora sul suo suolo qualche caduto in seguito all’ultima battaglia contro i brutali temporali e le sferzanti tempeste dell’ultima estate. Ma guai a parlare di cambiamento climatico, ecocidio, catastrofe ambientale. Mi addentro, dicevo. Inizio ad esplorarlo in lungo e in largo come se non fosse l’ennesima volta che ho l’onore di attraversarlo, calpestarne il sottobosco e osservarne i rami che si allungano verso il cielo. Scelgo infine il luogo dove posizionare il telo impermeabile per sedermi a leggere. O almeno questo è l’intento.

Come si può concentrarsi sulle parole e le storie scritte su delle pagine di carta quando attorno a sè il selvatico trionfa e un mondo intero, con le sue faccende e i suoi abitanti, cattura l’attenzione?

Il sottobosco, regno delle foglie dell’ultimo autunno ormai in fase avanzata di decomposizione per dare il loro personale apporto all’humus; il muschio umido di un verde brillante che si aggrappa con delicata forza ai ceppi degli alberi tagliati; funghi di ogni forma e tipologia che crescono ancorati a rami fradici di pioggia che nessun passo umano ha ancora calpestato. Tronchi ricoperti di edera che si arrampica come abile scalatrice fino al cielo, come a voler sfidarne le divinità che vi dimorano.

Uno scoiattolo fa capolino, si mostra intento ad arrampicarsi e saltare da ramo a ramo, a dire il vero in maniera un po’ intontita e goffa, sull’albero poco davanti alla mia postazione.

Sembra del tutto incurante e disinteressato della mia presenza, al contrario di altri suoi parenti che svariate volte hanno tentato di avvicinarsi a me con un mix di timore, curiosità atavica e sfrontato coraggio.

Chissà quali sono i piani odierni dello scoiattolo. Chissà se ha degli impegni fissati da tempo e che non può rimandare.

Per fortuna le faccende da scoiattoli non sono affare umano, altrimenti ne sveleremmo ogni più intimo mistero e allora che senso avrebbe passare ore ad osservarli e fare ipotesi?

Che senso avrebbe seguirli con lo sguardo, arrampicandosi con il pensiero su ogni ramo dove si sono poggiate le loro zampe?

Mentre sto scrivendo di lui (o di lei), è già scomparso, dandosi alla macchia; nascosto al mio occhio umano che nel bosco non è certamente tra i più efficaci e abituati ai piccoli dettagli e agli impercettibili cambiamenti.

Oggi sono uscito di casa non solo per camminare, ma anche per schiarirmi le idee e mettere in ordine i pensieri, in questo perfetto binomio tra il cammino e il pensiero. Pensiero che provo a rendere scrittura, ma che da giorni assume le forme di una palude densa e oscura, in cui le idee rimangono impantanate e sembrano venire inghiottite senza speranza.

Sono giorni che sto provando a mettere su carta delle riflessioni per scrivere di immersione nel selvatico e di cultura della selvatichezza, tematiche che appartengono all’ambito della pedagogia del bosco e che riguardano tanto le piccole persone quanto gli adulti.

Seduto sotto un tetto di betulle e frassini, con un sottobosco che profuma di muschio, fango e pioggia, sono riuscito a scrivere quanto segue. Brevi appunti sparsi su immersione nel selvatico e altre riflessioni che verranno approfondite prossimamente:

Nel selvatico l’essere umano non è la misura di tutte le cose. La selvatichezza è allora l’incontro con l’altro, sia esso muschio, quercia o animale non umano; è la consapevolezza di condividere l’ambiente naturale con altre forme di vita e perciò l’annullamento della presunzione di dominio, di essere padroni.

Il selvatico rappresenta una dimensione non completamente determinata a priori, ma al contrario apre all’incontro con l’alterità, l’imprevisto e le relazioni tra tutti gli elementi che costituiscono il vivente. Il processo evolutivo di Homo Sapiens si è sviluppato in maniera che dentro ognuno di noi esista e resista il desiderio del selvatico, del contatto, della vicinanza e dell’immersione in esso.

Parafrasando Cognetti, possiamo quindi sostenere che il selvatico è un modo di vivere la vita. Un passo davanti all’altro, incontro, tempo, misura.

Pubblicato da Stefano

Chi sono? Domanda troppo difficile a cui rispondere. Per farla il più semplice possibile mi chiamo Stefano, sono una creatura selvatica di 28 anni e da che ho ricordo amo stare all'aperto, a contatto con l'ambiente naturale e soprattutto camminare nei boschi e in montagna. Il grande gioco della vita mi ha portato sui sentieri dell'educazione in natura e della pedagogia del bosco, ambito in cui sono attualmente in formazione. Prima di questo ho fatto tante cose, alcune più interessanti di altre e ho seguito quasi sempre i miei interessi, le mie passioni e la mia motivazione intrinseca, dall'antropologia alla controcultura punk per citare due degli ambiti che mi hanno formato come individuo negli ultimi dieci anni della mia vita, sempre accompagnato da una profonda tensione anarchica, una spontanea coscienza ecologista, una radicale critica alla civilizzazione e la curiosità verso tutte le forme in cui si incarna e manifesta la selvatichezza e il non-addomesticamento dell'essere umano, degli animali e della natura.