Non sinistri ma selvaggi!

Non sinistri ma selvaggi!
Per rimpolpare la sezione “materiali” pubblico questo testo firmato da Chris Kortright, apparso per la prima volta su Feral: a journal towards wildness e più tardi tradotto e stampato anche in lingua italiana con il titolo di “Non sinistri ma selvaggi!, saggi per un nuovo eco-anarchismo” da Istrice Autoproduzioni. Di seguito potrete leggere uno di questi saggi, il cui titolo originale è Lust for A Wild Life: emotions from an individual of the doomed generation, sperando possa dare nuova linfa a riflessioni su alcuni temi che non sembrano andare più di moda negli ambienti anarchici, antagonisti o di critica radicale del nostro paese. Qui invece potete scaricare e leggere l’opuscolo!

Sono nato nella generazione condannata. Le altre generazioni non possono capire i nostri sentimenti. Ci sono alcuni membri di queste generazioni che cercano di comprendere questa disperazione, ma per noi non è teorica, è tutto ciò che conosciamo. È tutto ciò che abbiamo sempre conosciuto (emotivamente, intellettualmente, spiritualmente). I miei genitori raccontano un episodio che mi riguarda quando avevo tre anni. Ero nel loro ufficio a San Francisco e i Blue Angels stavano facendo un volo acrobatico sopra la testa, mi sono buttato sotto il tavolo urlando “stanno sganciando la bomba!”. Da bambino avevo amici rifugiati provenienti dal Vietnam e dall’America Centrale, così ho sentito in prima persona le atrocità del capitalismo e del comunismo. All’età di dieci anni conoscevo una manciata di persone morte di AIDS, per non parlare di quelle che ho visto spegnersi davanti a me. Ho visto pochi matrimoni rimanere uniti e troppi bambini portati via dai “servizi sociali” per il crimine di trovarsi senza soldi. Ho messo piede a San Quentan per la prima volta a cinque anni e ho visto uccidere una persona a sedici.

Non conosco altro che il collasso ecologico. Il buco nell’ozono è sempre esistito. I ruscelli e i fiumi hanno sempre avuto uno strano odore. Non potevo mangiare i gamberi che prendevo nel torrente dietro casa mia, cazzo, non potevo bere l’acqua quando andavo in giro con mio padre. Doveva cercare di spiegarmi perché sulle colline non c’erano alberi e perché gli mancava mezzo orecchio a causa del cancro alla pelle. Non dovrebbe esserci della schiuma marrone intorno ai pneumatici sulla spiaggia dell’Oceano Pacifico? I bambini che muoiono a causa dei rifiuti industriali sono naturali, giusto? Ora volete parlarmi di Utopia. Volete che veda la luce alla fine del tunnel quando non ho mai visto un fiammifero!

L’industrialismo ha creato un mondo in cui l’intero ambiente umano e ogni oggetto in esso contenuto sono al servizio della causa della “produzione” e per ricordare alle persone che la loro unica felicità risiede nel mondo industriale. Questo mondo artificiale, costruito dagli esseri umani che vogliono eliminare l’ultima influenza selvaggia nel mondo, promette di essere così onnicomprensivo che sarà impossibile per gli esseri umani vedere, immaginare o anche solo sperare in qualcosa al di fuori di esso.

È difficile per me capire o relazionarmi con visioni di speranza o illusioni di utopie. Ma nel ventre decadente della civiltà molti di noi stanno cercando di connettersi con il proprio io selvaggio. Quei desideri e quegli istinti che mi fanno sentire male quando lavoro, perso nel labirinto di edifici e cemento, assordato dal ronzio dell’elettricità e dall’incapacità di reprimere la violenta reazione all’essere controllato, ammassato e manipolato. Queste connessioni possono derivare dal riconoscimento della nostra insignificanza mentre siamo in piedi nella natura selvaggia o accanto a una scogliera gigantesca, possono derivare dal sentimento di fratellanza che abbiamo provato quando abbiamo stabilito un contatto visivo con un procione, oppure dalla scarica di adrenalina erotica e dal caos di una rissa in strada con i poliziotti. Ognuno di noi ha trovato questa strada a modo suo, ma ciò che ci accomuna è che, a differenza di molti attivisti, non aspettiamo la rivoluzione, non guardiamo al futuro e non visualizziamo l’utopia. Stiamo cercando di vivere la nostra resistenza, di vivere per il momento e di resistere per il momento.

Come le fiamme che divorano un edificio o un bulldozer, il nostro desiderio di distruggere questo Leviatano è incontrollabile e imprevedibile. A causa del rifiuto dell’ideologia e del consapevole rifiuto della dialettica, dei manifesti e dei programmi, la nostra resistenza non può essere mappata, anticipata o preparata. Sebbene l’analisi sia fondamentale per lo smantellamento di questa società tecnologica, anche l’azione deve svolgere il suo ruolo cruciale. Ed è all’ombra di questa civiltà che c’è una minaccia strisciante. Questa minaccia mette a repentaglio le fondamenta della nostra civiltà perché manca il razionalismo che è vitale per la sopravvivenza dell’industrialismo. Il rifiuto del produttivismo, preferendo il desiderio di vita e di avventura rispetto al lavoro. Scegliere la vita di un singolo animale rispetto al progresso della scienza e della medicina. Mettere la natura selvaggia o l’oceano al di sopra della società industriale. Il desiderio antirazionale di essere colui che lancia il fiammifero che ferma coloro che stanno avvelenando il mondo e mi controllano! Antirazionalista nel senso che potrebbe costarmi la vita, ma non come un martire, come l’individuo che l’ha fatto per la pura gioia di vivere e la brama/amore per la vita.

Un mondo libero e selvaggio può essere creato solo tra le rovine di questa civiltà. Quando dico rovine intendo rovine fisiche. Gli edifici e le fabbriche devono essere abbattuti e le loro viscere tecnologiche demolite con martelli e fiamme. Le strade e i marciapiedi devono essere strappati per far respirare di nuovo il terreno sottostante. Le macchine che pensano, gestiscono, controllano e vivono le nostre vite al posto nostro devono essere assassinate. Tutti gli animali in gabbia e le terre selvagge recintate devono essere liberate. L’intero mondo artificiale deve essere distrutto per la creazione di una nuova società.

Questa nuova società libera e selvaggia deve nascere anche tra le rovine di un altro genere, un genere più importante. Sono le rovine della cultura della morte, le relazioni sociali che creiamo con tutto ciò che è nel mondo. Il rapporto con il mondo non umano deve passare da un rapporto di risorsa, di superiorità, a un rapporto di compagni di gioco in un mondo di avventura. Con i nostri simili dobbiamo smantellare i rapporti di merce che sono stati creati dalla cultura del lavoro, invece di pensare a ciò che otteniamo l’uno dall’altro, sperimentiamoci e ascoltiamoci l’un l’altro. Con i nostri amanti le relazioni sono solitamente basate sulla produzione, stipuliamo un contratto o un altro a seconda del prodotto che ci aspettiamo dal nostro impegno. Come radicali stiamo portando uno degli attributi più disgustosi del capitalismo industriale nei luoghi più belli della nostra vita. Non dovrebbero esserci contratti con i nostri amanti. Accordi, intese, dialoghi onesti sono necessari, ma se create la vostra vita amorosa secondo un modello economico-legale, essa sarà priva di vita e non appagante come la vita economica. Che la vostra relazione sia per una sera o per tutta la vita, non monogama o monogama, deve essere spontanea, appassionata e priva di leggi. Cercare di creare nuove relazioni con il mondo sembra meglio che aspettare la rivoluzione, non è vero?

Vinceremo? Possiamo creare una nuova società libera che viva nella natura selvaggia invece di distruggerla? Ne dubito, ma vivrò la mia vita all’insegna della sfida perché questo è quello che mi piace. Mi sento meglio se mi trovo alle prese con questa macchina distruttiva piuttosto che vivendo a mio agio nel suo ventre. Nel processo di lotta per la libertà e la selvatichezza le sperimentiamo, almeno quelle che sono le emozioni più vicine alla libertà autentica. La nostra resistenza crea anche delle crepe nelle fondamenta della civiltà, accelerandone l’inevitabile crollo. Perché questa civiltà cadrà, non può sostenersi da sola. Quando cadrà, porterà con sé tutta l’umanità, così come avviene nell’evoluzione, nell’entropia e nella vita!

O forse mi sbaglio! Forse possiamo vincere!

Pubblicato da Stefano

Chi sono? Domanda troppo difficile a cui rispondere. Per farla il più semplice possibile mi chiamo Stefano, sono una creatura selvatica di 28 anni e da che ho ricordo amo stare all'aperto, a contatto con l'ambiente naturale e soprattutto camminare nei boschi e in montagna. Il grande gioco della vita mi ha portato sui sentieri dell'educazione in natura e della pedagogia del bosco, ambito in cui sono attualmente in formazione. Prima di questo ho fatto tante cose, alcune più interessanti di altre e ho seguito quasi sempre i miei interessi, le mie passioni e la mia motivazione intrinseca, dall'antropologia alla controcultura punk per citare due degli ambiti che mi hanno formato come individuo negli ultimi dieci anni della mia vita, sempre accompagnato da una profonda tensione anarchica, una spontanea coscienza ecologista, una radicale critica alla civilizzazione e la curiosità verso tutte le forme in cui si incarna e manifesta la selvatichezza e il non-addomesticamento dell'essere umano, degli animali e della natura.