Una conversazione con Hirundo: contributi alla critica radicale alla civilizzazione destinati ad essere discussi, corretti e messi in pratica senza perdere tempo.

Una conversazione con Hirundo: contributi alla critica radicale alla civilizzazione destinati ad essere discussi, corretti e messi in pratica senza perdere tempo.
Hirundo è un progetto di distribuzione di materiale autoprodotto nato intorno al 2013 nel nord Italia. Nel corso degli anni ha pubblicato svariati opuscoli e libretti su tematiche che ruotano attorno all’anarco-primitivismo, alla critica della civiltà e all’anarchismo, dando così un importante contributo alla diffusione di una critica radicale su argomenti che, all’interno dei movimenti anarchici e antagonisti del nostro paese, non hanno mai trovato grande spazio. Personalmente ho conosciuto il progetto molti anni fa, grazie ad un caro amico e compagno che, sapendo del mio interesse verso le idee e le riflessioni riguardanti la critica anticivilizzazione, l’addomesticamento e l’anarchismo verde, mi prestò Tre Articoli da Black Seed (pubblicato nel 2017), opuscolo che mi capita ancora di andare a sfogliare di tanto in tanto. Oltre le traduzioni pubblicate da Hirundo, quello che mi ha sempre colpito e che ha funzionato come benzina per i miei pensieri incendiari sono state le sue intense, sentite e approfondite introduzioni che ritengo tuttora interessanti, potenzialmente attuali e per fortuna tutt’altro che ideologiche. Consiglio a tutti e tutte di contattarlo e recuperare le sue pubblicazioni e nel mentre vi lascio in compagnia di questa conversazione/intervista che abbiamo avuto via mail recentemente. Prendete le seguenti riflessioni, per parafrasare Vaneigem, come contributi alla critica radicale (alla civilizzazione) destinati ad essere discussi, corretti e messi in pratica senza perdere tempo. 

Ciao V. e grazie per aver accettato di fare questa chiacchierata sui temi della critica alla civilizzazione, della vita selvatica, della lotta ecologista e tanto altro. Partirei proprio dal nostro primo scambio avuto per mail e dalla tua riformulazione ironica del titolo di un articolo di Marvin Singh: “L’idea di anticivilizzazione e di vita selvatica moderna è tanto affascinante quanto errata”. Ti andrebbe di sviscerare meglio questo pensiero?

Certo quell’articolo che hai tradotto parlava dell’idea di comunismo primitivo, tanto affascinante quanto errata. Molti antropologi con idee molto interessanti come il gruppo inglese Radical Anthropology potrebbero non essere d’accordo, ma il punto a mio parere è un altro. Prendevo lo spunto per mettere in discussione la smania che abbiamo di dover creare categorie e concetti che al posto di chiarirci le idee ce le complicano. Mi è sempre piaciuto parlare piuttosto di una “critica alla civilizzazione” per esempio. Ogni volta che mettiamo un anti- davanti a qualcosa ecco già pronta una nuova bandierina da appiccicare in giro, una comfort zone dove ci mettiamo comodi con slogan appositi e riflessioni pronte all’uso da copiaincollare qua e là. Potremmo passarli in rassegna alcuni: anti-fascismo, anti-specismo, anti-sessismo, anti-razzismo e così via. Hanno la stessa funzione dell’anti-biotico, fanno piazza pulita. Istaurano idee ermetiche al di fuori delle quali sei un fascista, uno specista, un sessista, un razzista. Quindi la mia intenzione nel tempo è sempre stata di non ricreare un’altra situazione del genere con la critica alla civilizzazione. Guai a dirsi “non addomesticati” mentre gli altri quindi lo sarebbero. Siamo tutti messi alla stessa maniera, “abbiamo tutti il cuore spezzato” come ci disse John Zerzan nel suo ultimo giro in Italia, prima che il suo cuore si spezzasse definitivamente durante l’operazione Covid, detto sempre in senso metaforico. La stessa cosa vale per il primitivismo. Nonostante abbia pubblicato negli anni testi di chi si definiva primitivista, non abbiamo mai provato a creare un “movimento primitivista” ci è sempre sembrata un’idea balzana. Era più un nome per prenderci in giro a volte, “ecco che arrivano i primitivisti!” Sulla vita selvatica moderna c’è lo stesso rischio. In America c’è il rewilding, termine in uso anche al di fuori degli ambienti più radicali. In italiano si può tradurre inselvatichimento o rinselvatichimento, gente che va a vivere in ambienti più selvatici e fa delle esperienze di vita, e si spera anche sociali, ritrovando una connessione intima con la natura. È quindi qualcosa di diverso dal semplice bushcrafting sempre più diffuso ovunque o il survivalismo, e di sicuro nulla di fricchettone. Sono esperienze importanti che fortificano il corpo e l’anima e dovremmo spingerci a conoscerle meglio e a percorrerle per quanto possibile. Ma non dev’essere a mio avviso un fine. Sono cose che come molte altre attività anche in ambito più militante devono servirci per aprirci la mente e per pensare meglio non per farci trovare una “posizione” che da proprio l’idea di staticità, di chiusura. Meglio il dinamismo anche delle idee, perché le idee sono fondamentali ma devono diventare volontà e quindi azioni altrimenti come diceva Giorgio Gaber “un’idea, un concetto, se rimane un idea è soltanto un’astrazione”.

Quindi ecco la formula: come mettiamo in pratica l’anticiv? Con il rewilding. Troppo facile per essere vero, no? Cosa ne facciamo del resto del mondo che non si rinselvatichisce? La critica alla tecnologia e alla civiltà industriale deve essere utilizzata per aprirci al mondo e per far pensare la gente con la propria testa non per creare un’unilateralità che combatte contro un’ altra unilateralità tecnoscientifica, ahimè molto più potente e gigantesca. Quando si è adolescenti pensiamo, giustamente e “sacrosantamente”, che dobbiamo e possiamo distruggere tutto perché fa tutto schifo. Ma poi cresciamo o almeno dovremmo farlo e scopriamo che la civilizzazione non la distruggi, noi siamo la civiltà, ma possiamo portare dentro di essa idee e pratiche che ci riconnettano con la Terra e con la natura selvatica. Ritrovare una dimensione più spirituale in un mondo e anche in movimenti politici radicali sempre più materialisti, anche qui non cadendo nello spiritualismo puro che anche va molto di moda. Quando ci chiudiamo in un estremismo, e io considero estremista in primis la società di massa tecno-scientista, e poi quindi anche un estremismo anticivilizzazione dove se non distruggiamo tutto niente si cambia, ci mettiamo in una “posizione” appunto dove di fatto ci irrigidiamo, cioè moriamo poco a poco animicamente, interiormente. Con questa lente proviamo a individuare di quanti estremismi siamo oggi circondati nei movimenti politici di ogni sorta. Servirebbe una seria riflessione su quanto siamo vittima delle nostre stesse idee. Detto questo non voglio dire che quindi non bisogna fare nulla. La sensibilizzazione e le azioni dirette sono importanti, ma spesso è importante con quali ideali vengono portate nel mondo e fare attenzione che gli ideali, che sono la pianta e il fiore che sboccia dal seme dell’idea, non diventino ideologia, cioè dove gli ideali si atrofizzano, dove la pianta si secca e muore.

Come ti sei avvicinato nel corso degli anni alla critica anticivilizzazione e anarco-primitivista e cosa hanno significato per te queste parole, queste idee? 

Sul cosa penso di queste parole penso di aver già risposto, quando parlo di primitivismo intendendo sempre l’anarco-primitivismo. Lessi dei testi di Zerzan anni fa, e poi altre cose di Green Anarchy e altri collettivi americani. La politica centrosocialista italiana non mi attirava ma queste idee sì e poi mi accorsi che c’era gente anche qui che di queste cose ne parlava e iniziai a fare un po’ di cose assieme. Zerzan mi aprì a delle idee che non avevo ancora esplorato ma riconoscevo che in tante cose era un po “tonto” per dirla simpaticamente. Anche lui a suo modo portava rigidità, tutto e ogni cosa doveva rientrare nella sua formula anarco-primitivista. E’ stato più che altro un raccoglitore di idee altrui che però sapeva mettere insieme bene. Era anche quello un lavoro importante. Poi ci fu molto altro ma l’inizio fu questo. Mi aiutò a non diventare a mia volta rigido su una “posizione” il fatto che prima di queste idee c’erano quelle di Nietzsche, di Rousseau, Thoreau, Platone, Lao Tze e molto altro. 

Com’è nato di conseguenza il progetto Hirundo e la scelta di tradurre e pubblicare testi di autori e autrici attivi nel movimento anticivilizzazione e su riviste come Black Seed, Black and Green review o Green Anarchy? 

Nato l’interesse, lo misi inseme alla voglia di pubblicare cose che non giravano molto in lingua italiana. Questo mi permetteva di entrare in contatto con gli autori con i quali ho sempre lavorato per corrispondenza per arrivare a un lavoro accurato. Nel caso di Zerzan e di Four Legged Human ci siamo anche incontrati dal vivo. Mi piace creare ponti e relazioni nuove. Tradurre è un po’ creare ponti tra due lingue e culture differenti, non è per nulla semplice, è spesso impossibile riportare la fedeltà di un testo in un’altra lingua, da qui il modo di dire “traduttori, traditori”.

Uno dei testi che hai pubblicato come Hirundo che ha fatto nascere in me differenti riflessioni è stato Terra e libertà, una vecchia sfida. di Sever. Credo che al di là di fare proprie o meno le idee anticiv/primitiviste, per una reale autonomia dal sistema tecno-industriale capitalistico sia più necessario che mai oggi l’avere la possibilità delll’accesso alla terra. O per citare un altro opuscolo da te stampato: “Difficile capire cosa debba ancora succedere per comprendere che non c’è né libertà né autonomia senza terra, che né la tecnologia industriale né gli ammassamenti urbani possono garantire alcunché di liberatorio.” Sul tema dell’accesso alla terra e dell’autonomia, sono cambiate in questi ultimi tempi le tue posizioni? Cosa ne pensi in merito? 

Di base no, poi le si potrebbero dire meglio. Spesso il limite di questi testi è che semplificano molto cose molto complesse. L’accesso alla terra è certo basilare ma bisogna pur dire che non tutti vogliono fare i contadini o i rewilder, perché spesso il concetto di accesso alla terra è legato al fatto che ce ne fai qualcosa poi, che sia coltivarla o farci una casa. Certo, che la proprietà privata sia ancora un furto è un concetto sempre valido, è un gran problema ed è il nocciolo della questione legata all’accesso alla terra. Una cosa che mi sento di dire dove alcune idee sono cambiate è il fatto di pensare che tutti dobbiamo fare tutto, spesso questa cosa è celata dietro il concetto di autonomia, che si scambia per autosussistenza, si interseca e si confonde. Ma sono due cose differenti. E quindi devi farti la casa, l’orto, andare a caccia, crescere i bambini, educarli, fare la lotta, le iniziative, curarti, ecc… Ovviamente così o arrivi all’esaurimento nervoso o ti fermi prima e capisci che qualcosa non funziona. O meglio forse tutte queste cose le puoi fare ma le farai male o in maniera mediocre. Mentre invece penso dobbiamo aspirare a fare le cose fatte bene al meglio che possiamo, quindi se qualcuno ha talento per un qualche ambito della vita e magari si specializza in qualcosa e la fa bene e la mette al servizio della comunità e qualcun altro pensa ai bisogni di questa persona che per fare quella cosa non può provvedere ad altro, e altri agiscono nella stessa maniera ecco che viene fuori qualcosa di più umano che possiamo chiamare una società sana. “Ma voi primitivisti non eravate contro la specializzazione?” I primitivisti doc forse si, chi pensa con la propria testa può arrivare a comprendere che spesso non si tratta di essere pro o contro qualcosa ma di come controbilanciamo qualcosa che ci porta squilibrio. Per far questo a volte non bisogna contrapporsi alle cose con le nostre divise da anti-qualcosa ma mettersi di mezzo e vedere cosa abbiamo sul serio da mettere in gioco.

Per avviarci alla conclusione di questa chiacchierata mi piacerebbe chiederti il tuo pensiero su una parola tanto abusata (e spesso controproducente) come wilderness. Per citare un passaggio di Kevin Tucker: “l’esperienza della natura selvaggia è ben lontana dall’espressione della selvatichezza. I termini possono differire solo di due lettere, ma le implicazioni non potrebbero essere maggiori”. Quali sono le tue idee in merito alla contrapposizione tra l’idea di wilderness e quella di selvatichezza? 

Tucker parla della differenza tra le due parole inglesi wildnerness e wildness. Wilderness viene utilizzata ormai anche in Italia per indicare una zona tendenzialmente protetta dove non ci sono insediamenti umani se non poco invasivi e molta flora e fauna selvatica. Spesso combaciano con i parchi nazionali. Nelle Americhe ci sono zone di wilderness enormi come in Alaska e in Canada. Wildness invece, che in Italiano possiamo tradurre con selvatichezza è più uno stato interiore, uno stato d’essere. Quindi si c’è differenza. Ho affrontato questa cosa nella prima domanda quando parlavo del rewilding.

Quali sono per te i limiti più grandi della critica alla civilizzazione o di quella primitivista oggi nel 2024? Si può, per dirla con Wolfi Landstreicher, formulare una critica anticivilizzazione non primitivista che sia attuale e percorribile? 

Potremo andare oltre anche a Wolfi, visto che soprattutto qui in Italia forse queste idee per come le hanno portate gli americani cominciano a diffondersi ora in forma un po’ più diffusa, quindi fuori tempo massimo mi verrebbe da dire. Enrico Manicardi ha aiutato a diffondere il pensiero primitivista zerzaniano portando però anche i suoi limiti e le sue rigidità. Mentre anticivilizzazione forse lo si trova in qualche comunicato di azioni dirette ma non ha subito un granché di sviluppo a livello teorico. In Italia si è sempre parlato più di ecologismo radicale. Negli ultimi numeri di Black Green Review stavano provando ad andare oltre il primitivismo cominciando a parlare di primal anarchy, legato comunque sempre al discorso che i popoli di caccia e raccolta sono quelli che esemplificano maggiormente una società anarchica ed egualitaria. E certamente questa è una cosa reale, a tratti anche obbiettiva, e molti resoconti etnografici degli ultimi anni mettono in risalto questo dato di fatto. Ma detto questo non possiamo di certo aspirare a quel tipo di vita nei paesi industrializzati. Possiamo guardare a questi popoli con grande meraviglia e rispetto e prendere ispirazione dalla loro forza spirituale che ancora hanno in una maniera del tutto spontanea e diretta con il mondo. Ma il nostro compito qui è cercare di creare una società più equa e accogliente tenendo conto della complessità in cui viviamo oggi. La critica a questa complessità è inevitabile e va fatta ma poi ci dobbiamo fare i conti.Oggi più che diffondere idee sulla validità o meno di primitivismo o anti civilizzazione, dovremmo impegnarci in una critica seria alle tecnologie digitali, a quelle bio-mediche e al futuro prossimo del transumanesimo, e alle filosofie post-umane sempre più diffuse anche nei movimenti. Ma anche qui stando attenti a non creare la comfort zone anti-transumana o la feroce opposizione a ogni tipo di farmaco tout court. Il covid ha segnato una svolta epocale della quale ci stiamo però già dimenticando, e nei vari movimenti militanti ognuno è tornato alla propria normalità, e visto che non mi piace parlare solo degli altri ma anche di me, il mio proposito è appunto di non tornare alla nostra normalità: “primitivista o anticiv?” O alla discussione senza fine “Ma la tecnologia è neutra oppure no?” Su questo dibattito inconciliabile, nel senso che chi la pensa così si scorna con chi la pensa cosà, sto provando a porre un’altra domanda “Ma può esistere veramente un qualcosa che sia neutro?” Così provo a disinnescare le due polarità cercando di spostare il nostro pensare da un’altra parte e a porre un’altra domanda: “come compensiamo lo strapotere tecnologico e tecnocratico che inevitabilmente renderà l’umanità sempre più dipendente e meno autonoma e soprattutto meno libera?” Di sicuro è importante l’educazione che ci viene impartita quando siamo bambini e giovani e su quello c’è molto lavoro da fare ma strade ce ne sono, ma da quando non siamo più educabili, cioè dai 21 anni in poi circa dobbiamo seriamente intraprendere un percorso di autoeducazione per scardinare gli schemi mentali che abbiamo e ne abbiamo a bizzeffe, e un’autoproclamata etichetta da rivoluzionari non ci salva dalla confusione dominante. Il mondo naturale, la natura selvaggia ci può certo aiutare, ma da sola lei non basta più, è sull’umano che dobbiamo lavorare per tornare anche a capire nuovamente chi è l’uomo e che ci facciamo qui, domanda ormai non più in auge ma fondamentale più che mai, altrimenti perché non diventare trans-umani dopotutto, se non siamo nulla di definibile, se siamo “neutri” che male c’è a darci una spintarella? Spero di aver messo un po di carne al fuoco come mi avevi chiesto, grazie delle domande.

Pubblicato da Stefano

Chi sono? Domanda troppo difficile a cui rispondere. Per farla il più semplice possibile mi chiamo Stefano, sono una creatura selvatica di 28 anni e da che ho ricordo amo stare all'aperto, a contatto con l'ambiente naturale e soprattutto camminare nei boschi e in montagna. Il grande gioco della vita mi ha portato sui sentieri dell'educazione in natura e della pedagogia del bosco, ambito in cui sono attualmente in formazione. Prima di questo ho fatto tante cose, alcune più interessanti di altre e ho seguito quasi sempre i miei interessi, le mie passioni e la mia motivazione intrinseca, dall'antropologia alla controcultura punk per citare due degli ambiti che mi hanno formato come individuo negli ultimi dieci anni della mia vita, sempre accompagnato da una profonda tensione anarchica, una spontanea coscienza ecologista, una radicale critica alla civilizzazione e la curiosità verso tutte le forme in cui si incarna e manifesta la selvatichezza e il non-addomesticamento dell'essere umano, degli animali e della natura.