Dalla difesa del territorio al sollevamento della terra (di Miguel Amorós)

Dalla difesa del territorio al sollevamento della terra (di Miguel Amorós)

L’anticapitalismo, quindi, non può prescindere da una prospettiva anti-industriale, di sabotaggio dello sviluppo, innanzitutto per preservare i territori in cui viviamo.

scritto da Luigi per la rivista Malamente

L’anarchismo sostiene un’economia della sussistenza, la disintegrazione delle grandi comunità e il riutilizzo della terra». Così scriveva su «Mother Earth», nel lontano 1909, l’anarchica americana Voltairine del Cleyre. Un anno più tardi Il motto Terra e libertà! fu lanciato durante la rivoluzione messicana dei contadini e degli indios. Sono anni che mi interrogo e rifletto sull’importanza del ritorno alla terra e al territorio come pratiche concrete nella lotta più ampia al capitalismo, all’industrializzazione tecnologica, al modello-metropoli e alla devastazione ambientale. Un ritorno che possa significare l’occupazione e l’autogestione dei territori in tutte quelle zone ai margini rispetto ai grandi centri urbani smart dominati dalle logiche capitalistiche e dall’ideologia del progresso tecnologico senza fine. Di questi temi e tanto altro parla Miguel Amoròs, teorico anarchico e anti-industrialista di cui vi ho presentato il testo intitolato “anti-industrialismo: chi è e cosa vuole” proprio ieri. Per continuare a ragionare individualmente e insieme su questi argomenti, pubblico un altro contributo firmato Amoròs intitolato “Dalla difesa del territorio al sollevamento della terra”.

Una delle caratteristiche principali del nostro tempo è la concentrazione della popolazione in grandi agglomerati impersonali illimitati, strutturati solo da assi stradali, frutto della globalizzazione, o più chiaramente, della dissoluzione di un capitalismo di nazioni in un capitalismo di regioni urbane interconnesse. Il fenomeno è noto come metropolizzazione. Il tipo di insediamento che ne deriva, la metropoli, determina una nuova forma di relazione e di governo, quindi una diversa cultura, individualistica e consumistica, e un diverso stile di vita, più artificiale e dipendente, più industriale e commercializzato, determinato quasi interamente dagli imperativi dell’esternalizzazione produttiva. Le metropoli, infatti, sono soprattutto i più idonei centri di accumulazione di capitale per la globalizzazione degli scambi finanziari, evento direttamente responsabile dei disastri ecologici e sociali che ci colpiscono. L’urbanizzazione intensiva che li alimenta non è altro che il violento riadattamento del territorio alle esigenze evolutive dell’economia globale. L’area metropolitana è la concrezione spaziale della società globalizzata. In questa fase, la crescita economica è fondamentalmente distruttiva, insostenibile, tossica e quindi conflittuale. Gli effetti sulla salute fisica e mentale della popolazione concentrata sono terribili e il danno ambientale è simile a quello di una guerra contro le campagne e la natura: desertificazione e salinizzazione del suolo, acidificazione degli oceani, rottura dei cicli biologici, inquinamento dell’aria, dell’acqua
e dei terreni, l’accumulo di rifiuti, lo spreco energetico, l’esaurimento delle risorse, la perdita di biodiversità, il riscaldamento globale, ecc. Allo stesso tempo, le economie indigene sono rovinate, poiché la produzione locale di beni e cibo non può competere con la grande produzione industriale. Di conseguenza, l’agricoltura tradizionale, la piccola produzione e il piccolo commercio tendono a scomparire a favore delle piattaforme logistiche, dell’industria delocalizzata e dei
supermercati. Proprio come è successo con gli artigiani agli albori del capitalismo moderno, il contadino diventa superfluo e la sua cultura obsoleta. Il territorio inarrestabilmente si svuota e si degrada; gli abitanti di paesi e piccole città migrano verso agglomerati urbani sempre più inabitabili dove regnano la disuguaglianza e lo sradicamento, mentre le città di medie dimensioni ristagnano e declinano.


Ora che l’industria agroalimentare è preponderante, il processo di svuotamento rurale può proseguire senza ostacoli, poiché è necessario per la completa conversione del territorio in capitale, in motore di sviluppo e fonte prioritaria di profitto.
Oggi la questione sociale si manifesta sempre meno come esclusivamente lavorativa, avendo il mondo del lavoro perso la sua antica centralità. Neppure, però, come problematica circoscritta ai conglomerati urbani, per quanto le conseguenze indesiderabili della metropolizzazione – formazione di ghetti periferici, inquinamento atmosferico, servizi pubblici insufficienti o inesistenti, gentrificazione, precarietà, sfratti, povertà, ecc. – danno origine a numerose proteste. Il territorio, opportunamente spopolato e fortemente sbilanciato e impoverito dalle pratiche estrattive, si diversifica come fonte di reddito e acquisisce peculiarità economiche complementari a quelle della conurbazione: riserva edificabile, supporto contenitore di infrastrutture, produttore di risorse energetiche, luogo di agricoltura industriale e allevamento intensivo, spazio per il tempo libero, seconde case o turismo rurale… L’aggressione del territorio produce involontariamente uno spostamento geografico dell’asse delle lotte, che nei paesi turbo capitalisti affluiscono in sua difesa. La questione sociale riappare dunque come questione territoriale, e, dato lo spopolamento rurale – quasi assoluto nello Stato spagnolo, con il conseguente abbandono di decine di migliaia di piccole aziende agricole e di milioni di ettari di coltivazioni – la sua espressione più autentica anche se più difficile è il ritorno alla campagna. Tuttavia, un vero soggetto collettivo con un obiettivo unificante e chiaramente trasformatore non riesce a concretizzarsi.


I neorurali non costituiscono da nessuna parte un collettivo numericamente sufficiente per formare un soggetto politico con i giovani abitanti del posto, i ricercatori dissidenti, le donne e i contadini residui. Il soggetto si costituisce con la segregazione radicale di un gruppo anticonformista che vuole costruire il proprio mondo; al contrario, l’opposizione al cancro dello sviluppo non si discosta affatto dai metodi convenzionali. Spesso ricorre alla mediazione della politica tradizionale e accetta la coabitazione con il vecchio ordine sociale. Non si tratta di amministrazione comunale, di accesso popolare alla terra o di smantellamento del suo sfruttamento industriale. Nonostante tutto, nel territorio si dispiegano più a fondo tutte le contraddizioni del capitalismo e dello statalismo, ma il dominio – il sistema, il potere, la classe dirigente – è ancora capace di neutralizzarle con meccanismi di cooptazione e formule di stabilizzazione tipo l’“economia sociale”, la “transizione energetica”, la “decrescita” non conflittuale o il “nuovo patto verde”. La difesa del territorio è oggettivamente anticapitalista, ma soggettivamente non lo è ancora.
L’esodo rurale ha messo fine alla società contadina in Europa e ha reso impossibile la comunione d’interessi nelle campagne e quindi la formazione di una classe solida e attiva. Per questo si dà il caso di un soggetto allo stato gassoso, concretizzato in “entità”, piattaforme o coordinazioni, che cerca di cambiare la società senza disturbare le sue élites mentre cerca di uscire dal capitalismo senza sfondare la porta. Per questo, l’attuale difesa del territorio è incapace di capovolgere la situazione nonostante il contributo non trascurabile delle masse peri-urbane insoddisfatte, poiché l’obiettivo proclamato consiste solo nel cambiare il “modello di sviluppo”, presupponendo, grazie a una benevola disposizione delle istituzioni “ripensate” o “reinventate” non si sa da chi, di non porre fine al capitalismo, alla gerarchia e allo Stato. In verità, sulla difesa del territorio pende la
spada di Damocle dell’istituzionalizzazione, della promozione di dirigenti e di un disordine incanalato. Solo un collasso urbano potrebbe alterare tali limiti, tenendo conto che le metropoli sono sempre più vulnerabili e che i problemi derivanti dal cambiamento climatico o dalle difficoltà nell’approvvigionamento idrico, elettrico, di combustibili o di cibo potrebbero facilmente renderle invivibili.


Solo nelle terre dell’America Latina, alcune condizioni storiche contrarie a ciò che i dirigenti chiamano “progresso” hanno permesso la sopravvivenza di un numero importante di contadini, in parte indigeni, che ha mantenuto le sue tradizioni comunitarie di autoproduzione, autodifesa e autogestione. Lì, la resistenza all’assalto della globalizzazione ha potuto ricostruire un’identità rivoluzionaria ossia una classe pericolosa. L’attività eminentemente difensiva delle comunità rurali ha posto il problema agrario al centro della questione sociale, irradiando l’influenza della campagna sui quartieri emarginati della città. In questo modo la difesa del territorio fa un salto di qualità verso il sollevamento della terra e diventa lo specchio in cui va vista la lotta urbana. Politicamente, con la rivendicazione del potere di decisione – della sovranità – da parte delle assemblee territoriali autonome; economicamente, con la volontà di trasferire le risorse dalla metropoli alla campagna; socialmente, con le pratiche di autogestione e auto-organizzazione. Indubbiamente, in questo contesto di contraddizioni emergenti che impediscono al sistema dominante di presentarsi come parte principale della soluzione, come fa da noi, si accentua l’antagonismo tra il campo comunitario e l’estrattivismo industriale, divenendo, a vista di tutti, insolubile nell’ambito di un regime capitalista e statalista. Ogni passo avanti nella produzione e distribuzione alternative, ogni terra occupata, ogni gerarchia abolita, significherà una battuta d’arresto del regime suddetto, cioè del dominio, per cui ci si può aspettare una controffensiva alla quale parare, che, logicamente, sarà autoritaria nella sua concezione e poliziesca e pure militare se la situazione lo richiede, nella sua realizzazione.


Non intendo il sollevamento della terra come una mera espressione tipica della neolingua della sinistra domestica, né penso che con essa si alluda al sollevamento retorico di un 15M o alle innocenti rivendicazioni rivolte ai governi dello pseudo-movimento di Extinction-Rebellion o dei collassologi patentati. Il sollevamento della terra va inteso nel suo significato letterale: la rivolta contro il potere costituito da parte di un ampio settore della popolazione eretto in soggetto collettivo – in classe – che vuole vivere secondo i suoi desideri, senza mediazioni esterne, e per questo esige cambiamenti sociali rivoluzionari nell’economia, nella politica e nella società. È una risposta insurrezionale contro le conseguenze catastrofiche della crescita economica e anche la fase culminante di un processo di lotta sociale. Nei paesi senza agricoltori il processo sta appena iniziando; si cerca la strada a tentoni, attraverso discussioni, liberazione di spazi, scaramucce ed esperimenti. L’obiettivo è una società civile composta di comunità autorganizzate, radicate nella
terra, separate il più possibile dallo Stato e dai “mercati”, dunque disurbanizzate, destatalizzate e de-globalizzate. Il che, ovviamente, non si realizza con SMS (l’arma preferita di Toni Negri), simulacri circensi, denunce misurate alle autorità o manuali di collassologia.
Per uscire dal capitalismo bisogna affrontarlo con decisione. Tuttavia, nonostante il moltiplicarsi di situazioni critiche di ogni genere e le implicite minacce di collasso, il regime capitalista e statalista
continua a riprodursi perché trova lungo il cammino nuovi alleati con cui perseverare nella stessa dinamica di potere e di crescita. Le predizioni apocalittiche non lo spaventano, anzi. La catastrofe lo nutre. Così, non lo fermeranno le sfilate carnevalesche, le candidature elettorali, le prodigiose formule associative o qualsiasi altro tipo di sostituto convivialista. Tutto ciò fa parte del suo mondo. Come si diceva un tempo, alla guerra come alla guerra, anche se in realtà si tratta di sfuggirla.

Pubblicato da Stefano

Chi sono? Domanda troppo difficile a cui rispondere. Per farla il più semplice possibile mi chiamo Stefano, sono una creatura selvatica di 28 anni e da che ho ricordo amo stare all'aperto, a contatto con l'ambiente naturale e soprattutto camminare nei boschi e in montagna. Il grande gioco della vita mi ha portato sui sentieri dell'educazione in natura e della pedagogia del bosco, ambito in cui sono attualmente in formazione. Prima di questo ho fatto tante cose, alcune più interessanti di altre e ho seguito quasi sempre i miei interessi, le mie passioni e la mia motivazione intrinseca, dall'antropologia alla controcultura punk per citare due degli ambiti che mi hanno formato come individuo negli ultimi dieci anni della mia vita, sempre accompagnato da una profonda tensione anarchica, una spontanea coscienza ecologista, una radicale critica alla civilizzazione e la curiosità verso tutte le forme in cui si incarna e manifesta la selvatichezza e il non-addomesticamento dell'essere umano, degli animali e della natura.