Un ambiente in cui vivere – Note sulla società industriale e la sua ecologia (di Un amico di Ludd)

Un ambiente in cui vivere – Note sulla società industriale e la sua ecologia (di Un amico di Ludd)
Questo testo firmato “un amico di Ludd” è apparso originariamente sul diciottesimo numero di Green Anarchy, giornale di teoria e azione anti-civilizzazione, tra l’autunno e l’inverno del 2004. A distanza di vent’anni, anche se in termini di emergenze, sviluppo tecno-industriale e repressione son stati fatti numerosi passi in avanti, molti spunti e riflessioni emerse in questo articolo possono tornare utili per continuare a ragionare sui temi della distruzione ambientale, della società industriale, del progresso tecnologico e dell’autonomia individuale e collettiva. Buona lettura!

Il bosco e il villaggio
“Un ambiente in cui vivere”: così un bambino ha definito l’ambiente in un tema proposto a varie classi di Rovereto e dintorni. È una delle definizioni più belle che io conosca. Infatti, bisogna partire proprio da questo: guardarsi intorno. È evidente che ciò che ci circonda non è fatto per “viverci dentro”. Qui si può sopravvivere – questo è tutto – e sempre più spesso a spese di milioni di persone.

Nelle note che seguono, cercheremo di mettere in luce alcune relazioni tra la progressiva perdita di autonomia individuale e sociale, la devastazione ambientale e l’inasprimento della repressione. Non per aggiornare l’infinito catalogo di orrori e denunce, ma piuttosto per riflettere su alcune possibilità. Per questa volta, partiremo da un “per” e non da un “contro”.

Che cos’è un “ambiente in cui vivere”? Direi un luogo in cui il piacere della solitudine e quello dell’incontro si intrecciano ad arte, mentre sappiamo per esperienza che la società industriale distrugge entrambi. Con un’espressione eloquente, Gunther Anders ha descritto gli abitanti delle città contemporanee come “eremiti di massa”, sempre più atomizzati nelle loro relazioni e sempre più massificati nelle loro attività, piaceri e movimenti. La completa solitudine è difficile quanto un incontro veramente reciproco e non mediato. Se consideriamo la natura selvaggia come luogo di solitudine e il villaggio abitato come luogo di incontro, un “intorno da vivere” è un interscambio ininterrotto tra la foresta e il villaggio, un movimento continuo e senza violenza tra l’una e l’altro. È la possibilità di allontanarsi dai propri simili per poi ritornare da loro; di più, è la costante consapevolezza di questa possibilità. Partire alla ricerca di nuovi pensieri, nuovi smarrimenti e persino nuove paure. Il bosco che diventa campagna, la campagna che diventa giardino, il giardino che diventa la piazza del paese, il sentiero, la casa. Ma un “intorno da abitare” è soprattutto un’umanità che sa percorrere e abitare questi spazi, che sa padroneggiarne gli usi, le abitudini e le tecniche.

La nostra autonomia è un rapporto continuo tra ciò che è pre-individuale e ciò che è individuale. Il pre-individuale è tutto ciò che è comune e generico, come le facoltà biologiche dell’essere umano, il linguaggio e le relazioni sociali che incontriamo quando nasciamo. L’individuo è ciò che ci viene sottratto attraverso la nostra attività. Diventiamo individui attraverso il nostro modo di entrare in relazione con la natura e con la storia. In questo senso, la solitudine e l’incontro, la foresta e il villaggio sono una soglia tra il passato e il presente. Così come l’etica individuale nasce e si afferma in una dimensione collettiva (il concetto di ethos si riferisce, non a caso, al luogo in cui si vive, agli usi e ai costumi), gli spazi abitativi sono l’incontro tra le generazioni e la loro arte di abitare. La società industriale, però, rende sempre più impossibile la convivenza tra usi e costumi diversi, così come abolisce ogni interscambio armonico tra le varie tecniche elaborate nel corso della storia, distruggendo così la creatività di base delle comunità.

Insomma, un “ambiente in cui vivere” è un luogo in cui “l’arte di pronunciare grandi discorsi e di compiere grandi azioni” (per riprendere la splendida definizione di politica che si trova in Omero) risponde a due necessità fondamentali:

  • Che l’attività non è separata dalla sua rappresentazione;
  • che le tecniche impiegate non siano irreversibili.

Una delle caratteristiche essenziali della società attuale è che al suo interno siamo testimoni di un crescente divario tra l’attività che svolgiamo e la nostra capacità di rappresentarne le conseguenze. A causa dell’estrema divisione e specializzazione del lavoro, a causa di un gigantesco apparato tecnologico che ci rende ogni giorno più ignoranti riguardo agli strumenti che usiamo (incapaci come siamo, individualmente, di comprendere la loro natura, di padroneggiare la loro produzione, di riparare i loro guasti), non siamo consapevoli del significato delle nostre attività. Per questo il prodotto delle nostre attività può essere tranquillamente falsificato e ricostruito artificialmente per noi. Per fare un esempio, qualcuno ha notato che è più facile, in termini di ripercussione reale dell’azione sulla coscienza, bombardare un’intera popolazione che uccidere una singola persona. Una popolazione bombardata è solo un lampo di luce che appare su uno schermo, mentre una persona uccisa è una realtà di cui la coscienza sopporta tutto il peso. È per questo che la società attuale è in grado di farci tollerare un massacro quotidiano scientificamente organizzato, perché rende sempre più invisibile il rapporto tra le azioni e le loro conseguenze. Dalla speculazione finanziaria alla produzione militare, dalla necrotecnologia all’industria nucleare, ognuno può trovare esempi per sé.

Un “intorno in cui vivere” è un luogo in cui l’attività non è separata attraverso la sua rappresentazione (intesa in senso politico, come delega, in senso mediatico/spettacolare, come sistema di immagini da contemplare passivamente, e in senso mentale, come offuscamento della coscienza) [5]. Un’altra caratteristica decisiva della società attuale è che ha sottratto le tecniche (di produzione, costruzione, scambio) a qualsiasi dimensione locale e comunitaria, allontanandole in una megamacchina le cui conseguenze sono sempre più irreversibili. Dalle scorie nucleari alle mutazioni genetiche, la tecno-scienza ha perso ogni carattere sperimentale, e quindi reversibile, perché i suoi esperimenti hanno ormai il mondo come laboratorio – e non c’è un mondo di riserva. Un “ambiente in cui vivere” è un luogo in cui la questione dell’efficacia tecnica è sempre subordinata a considerazioni etiche e sociali, in cui è possibile tornare indietro se un percorso porta all’impoverimento delle relazioni umane, alla specializzazione gerarchica e al potere. Solo un’ideologia totalitaria legittima come scientifico tutto ciò che è tecnicamente realizzabile, imprigionando così il divenire umano in una successione meccanica senza fine. Qualsiasi progresso degno di questo nome – nei costumi, nella mentalità, nelle relazioni sociali – va ricercato contro questa marcia forzata.

Una ruota di scorta
L’ecologia di Stato – di cui il vertice COP9 rappresenta un bel concentrato – è solo la ruota di scorta della società industriale. Infatti, si tratta sempre più di una gestione poliziesca delle “risorse ambientali”. Senza mai mettere in discussione la dipendenza generalizzata dai materiali e dalle tecnologie più inquinanti, cerca di “moralizzare” gli abitanti delle città atomizzate sottoponendoli a ulteriori controlli e vessazioni. Visto che questa società non sa più dove mettere la propria spazzatura (sia in senso stretto che in senso lato), andiamo a rovistare tra i rifiuti di ogni famiglia e puniamo gli spreconi.

Un esempio lampante di questa ideologia ecologista è la proposta di Legambiental [4] riguardo alle nuove fonti energetiche per fermare i gas serra. Per tutta la durata del summit, inviando due sms elettronici per euro attraverso il cellulare, si è contribuito non solo alla diffusione del cancro, ma anche – per gentile concessione delle compagnie di telefonia mobile – all’acquisto di una centrale eolica in Swaziland. Quando questi ambientalisti di corte lanciano a volte allarmi catastrofici (sull’ozono, sulle calotte glaciali, sulla scarsità d’acqua), è solo per spingere i civili ancora più vicini alle istituzioni e ai loro presunti esperti. Per dirla in breve, questa ecologia è la soluzione statale ai problemi statali, la soluzione capitalista ai problemi capitalisti.

Finora la risposta più bella – e involontaria – ai summit dei distruttori della terra l’hanno data i tranvieri milanesi, annunciando l’acceso ritorno dello sciopero selvaggio, di cui da tempo si notava l’assenza. Al di là delle loro rivendicazioni salariali, mantenute al di fuori di ogni scenario sindacale, questi “irresponsabili”, questi “criminali”, questi “terroristi urbani” (come li hanno descritti i media e il coro politico) hanno posto un importante problema di ecologia sociale: quello del movimento nelle grandi città. Un semplice blocco della rete di transito ha paralizzato un’intera città. Invece di interrogarsi su quanto realmente controllano le loro vite e i loro movimenti, gli abitanti della città hanno gridato allo scandalo, si sono riuniti sui marciapiedi, rinfacciandosi il fatto stesso di esistere. Non sono mancati gli ecologisti, che hanno rimproverato agli scioperanti di aver fatto aumentare l’inquinamento a causa dell’aumento del traffico automobilistico (come se i ritardi o le assenze sul posto di lavoro non avessero, in realtà, ripulito un po’ l’aria).

Una sensibilità e il suo mondo
Negli ultimi anni ci sono state alcune lotte che hanno saputo intrecciare quella necessità di conflitto e di azione diretta con la realtà e il sogno di un “intorno da vivere”. Penso alle tante iniziative e azioni in solidarietà con Marco Camenisch. Mi sembra che il più delle volte queste abbiano saputo superare i limiti solitamente presenti nelle mobilitazioni a sostegno di un particolare detenuto, comunicando una sensibilità e il proprio mondo. Mi spiego. Di fronte alla repressione c’è spesso la tendenza a sospendere quasi le proprie lotte per parlare del carcere e dei compagni che ci sono dentro, riducendo involontariamente la condizione a un conflitto tra noi e chi ha il potere. Nel caso della solidarietà con Marco, invece, a partire dalla sua lotta, la battaglia per la sua liberazione si è configurata come una continuazione e un rafforzamento delle ragioni che hanno portato al suo arresto: la critica concreta alla nocività ambientale e sociale. Sappiamo per esperienza che questa resistenza alla tirannia del progresso ha saputo parlare non solo ai compagni, ma anche agli altri, e che alcuni montanari e pastori hanno considerato Marco come uno di loro. Ho notato la stessa cosa con la campagna contro Benneton.

Non c’è dubbio che si stia alzando un forte vento repressivo. Credo che la posta in gioco decisiva sia quella di saper interpretare questa repressione. Le attuali condizioni di vita e di lavoro possono essere imposte attraverso un uso sempre più massiccio del terrore (terrore di rimanere disoccupati e di non poter pagare affitti in rapida ascesa, terrore della polizia e della prigione). La repressione agisce contro individui atomizzati, la cui crescente dipendenza da uno stile di vita fallimentare li rende incapaci di qualsiasi solidarietà materiale o ideale. È un errore separare gli attacchi repressivi da questa progressiva disintegrazione del mondo – nel senso di un’esperienza diretta della realtà e dei propri simili, al di fuori della campana mediatica e mercantile, al di fuori degli appartamenti tombali della concentrazione imposta dalla pianificazione urbana. Saper interpretare la repressione significa anche non cadere nell’illusione che chi è al potere ci colpisca perché siamo una minaccia reale (con tutto il blocco dell’identità che tale illusione comporta). Se siamo un detonatore, come qualcuno ha detto, l’obiettivo di chi detiene il potere è separarci da qualsiasi materiale esplosivo, cioè da qualsiasi contesto sociale di lotta. Con le parole e con le azioni, dovremmo fare l’esatto contrario.

Nei circoli anti-industriali si fa spesso riferimento, a ragione, all’insurrezione luddista contro le macchine (1811-1813). Se il governo inglese dovette usare più soldati contro i distruttori di macchine che contro le truppe napoleoniche, è perché si trovava di fronte a un’autentica rivolta sociale, anonima e senza leader. Un’insurrezione in cui l’arma del sabotaggio – da sempre lo strumento principe della lotta proletaria – portava in sé un “intorno in cui vivere”. È stata opera di una vera e propria coscienza sociale, come dimostra il fatto che durante gli attacchi ai macchinari industriali sono state risparmiate le macchine che potevano essere utilizzate, scambiate e riparate su base locale e comunitaria, cioè al di fuori del sistema di fabbrica. Nonostante le accuse di tutti gli storici progressisti e marxisti, non c’era nulla di “cieco” in questa rivolta. Un’economia di sussistenza che faceva largo uso di terre collettive entrava in conflitto con il sistema della proprietà; un’autonomia nell’arte di costruire case e produrre dove il villaggio incontrava la campagna entrava in conflitto con la migrazione nelle città. L’industrialismo ha dovuto addestrare le sensibilità – attraverso le bastonate – per farle aderire al suo mondo, alle sue tecniche e ai suoi valori.

La repressione è il bulldozer di un capitalismo che sta distruggendo il mondo, di una civiltà che isola uomini e donne per poi socializzarli nella sua comunità virtuale.

Utopia nel fango
Mi sembra che la situazione attuale sia piena di possibilità. Se non fossimo così spesso incapaci di praticare la poesia, cioè “l’arte di fare matrimoni e divorzi illegali tra le cose”, come diceva Bacone, potremmo cogliere molte connessioni tra situazioni che sembrano distanti tra loro. Un esempio potrebbe essere quello fatto prima, dello sciopero selvaggio dei lavoratori dei trasporti nel giorno di apertura della conferenza sull’ambiente. Ce ne sono molti altri. A questo proposito, mi piacerebbe che i compagni approfondissero una discussione: la guerriglia in Iraq e le questioni che apre.

Ciò che sta accadendo conferma una realtà spesso espressa dai rivoluzionari: ciò che nessun esercito sarebbe in grado di fare (opponendosi e rendendo le cose difficili alla più grande forza militare del mondo), una guerriglia sociale è in grado di farlo. Ancora una volta questo suggerisce la necessità, anche in situazioni molto più piccole, di considerare il concetto di forza in modo diverso. Ma non mi interessa parlare di questo, perché abbiamo ancora poche informazioni sul ruolo che i clan legati al vecchio regime svolgono nella resistenza (anche se l’estrema diversità delle tecniche di attacco contro le truppe di occupazione suggerisce che è in atto un conflitto sociale che non può essere ridotto a una guerra tra potenze). Allo stesso modo, do per scontata l’importante occasione che abbiamo, soprattutto dopo Nassiriya [6], di parlare di chi sono i veri terroristi (lo Stato e i suoi lacchè), visto l’uso propagandistico che viene fatto dell'”allarme terrorismo”, con le sue immediate ricadute repressive. I governanti sanno collegare fin troppo bene il Nemico esterno (chi ostacola l’aggressione militare) al Nemico interno (chi rimane fuori dal coro del consenso). Dovremo trarre in fretta qualche lezione da questa situazione.

La situazione irachena, tuttavia, offre spunti di riflessione sulle relazioni già abbozzate tra società industriale, emergenza ecologica e repressione. Ne metto in evidenza alcuni.

C’è la questione del petrolio. Numerosi studi commissionati dalle compagnie petrolifere sono concordi nell’indicare che le risorse di petrolio greggio si esauriranno entro i prossimi dieci anni (non l’esaurimento assoluto, ma piuttosto l’esaurimento di quella parte di petrolio che può essere estratta utilizzando meno energia di quella che si potrebbe ottenere dal petrolio estratto). La curva indicata per il gas naturale non è di molti anni più lunga. Gli stessi studi ci informano che tutte le energie alternative (nucleare compreso) non sarebbero in grado di soddisfare nemmeno la metà del fabbisogno attuale. Senza entrare nei dettagli, ci si pone una domanda. Anche senza considerare il fatto che il capitale non abbia previsto progetti alternativi, tenuti per ora opportunamente nascosti, non c’è dubbio che il problema esista e che metta in luce alcuni dei limiti storici, se non addirittura ecologico-planetari, dell’attuale organizzazione sociale. Per fare un esempio, consideriamo che l’agricoltura moderna dipende per il 95% dal petrolio (diserbanti, pesticidi, trattori, industrie per la produzione di macchinari e altri strumenti, mezzi per assemblarli e trasportarli, centrali elettriche per permettere tutto questo e così via).

Questa società del petrolio ha generalizzato a tal punto la dipendenza da un’unica risorsa (persino l’estrazione e la distribuzione dell’acqua sono subordinate ad essa, e non solo per i famosi pozzi tubolari attivati dal diesel), che la scarsità di tale risorsa si configura come una catastrofe. Soluzioni alternative o meno, il passaggio non sarà indolore, e i governanti lo sanno.

Ecco il secondo punto che voglio sottolineare: chi vede la guerra in Iraq solo come un’occupazione militare per prendere il controllo delle risorse energetiche si sbaglia (anche se certamente c’è anche questo, come dimostra il ruolo fondamentale delle compagnie petrolifere nel sostenere l’amministrazione Bush).

Quello in corso è un grande esperimento politico e sociale: testare la capacità di resistenza di intere popolazioni poste in situazioni limitate, situazioni che saranno sempre più frequenti in futuro. L’Iraq è un laboratorio di investimenti economici, di strategie militari, ma soprattutto di ingegneria sociale. L’ordine dominante – che si occupi di necrotecnologia o di petrolio – sta portando avanti sempre più una sorta di sperimentale mundi: sperimentazione sul mondo in quanto tale. I civili devono adattarsi a tutto questo con dosi sempre più massicce di controllo, vessazione, terrore. Negli Stati Uniti oggi ci sono più prigionieri che contadini. Di fronte a questa realtà, gli accordi di Kyoto sono una macabra bufala o meglio, un ultimatum che suona così: non avrete altro mondo all’infuori di me. E qui cala il sipario su ogni ecologia che non vuole sovvertire questa società e le sue istituzioni. Tutte le energie alternative e tutta la coltivazione biologica più diligente del mondo si scontrano con questo fatto: quando la stessa agricoltura, ormai interamente meccanizzata, non può fare a meno di un sistema di morte, non c’è nulla da riformare. Questo ci dicono la guerra e la resistenza della guerriglia in Iraq.

Niente più illusioni. Dal fango nascerà l’“ambiente in cui vivere” che abbiamo nel cuore, ma anche nel fango è sempre necessario affermare lo stile di vita per il quale si lotta.

Pubblicato da Stefano

Chi sono? Domanda troppo difficile a cui rispondere. Per farla il più semplice possibile mi chiamo Stefano, sono una creatura selvatica di 28 anni e da che ho ricordo amo stare all'aperto, a contatto con l'ambiente naturale e soprattutto camminare nei boschi e in montagna. Il grande gioco della vita mi ha portato sui sentieri dell'educazione in natura e della pedagogia del bosco, ambito in cui sono attualmente in formazione. Prima di questo ho fatto tante cose, alcune più interessanti di altre e ho seguito quasi sempre i miei interessi, le mie passioni e la mia motivazione intrinseca, dall'antropologia alla controcultura punk per citare due degli ambiti che mi hanno formato come individuo negli ultimi dieci anni della mia vita, sempre accompagnato da una profonda tensione anarchica, una spontanea coscienza ecologista, una radicale critica alla civilizzazione e la curiosità verso tutte le forme in cui si incarna e manifesta la selvatichezza e il non-addomesticamento dell'essere umano, degli animali e della natura.