La frontiera dell’inselvatichimento

La frontiera dell’inselvatichimento

Rewilding è un termine utilizzato principalmente in due campi ben distinti: nell’ambito della conservazione ambientale come un approccio progressivo che punta a far si che la natura si prenda cura di se stessa, consentendo ai processi naturali di riparare gli ecosistemi danneggiati e di ripristinare i paesaggi degradati. Attraverso il rewilding, i ritmi naturali della fauna selvatica creano habitat più selvaggi e ricchi di biodiversità. Nell’ambito invece della critica alla civilizzazione e del primitivismo anarchico, il termine rewilding riguarda non solo l’ambiente naturale, gli animali non umani e gli ecosistemi, ma anche l’essere umano che si libera dall’addomesticamento e torna al selvatico. Questa ambivalenza del termine rewilding ha molto a che fare con la stessa ambiguità che permea il concetto di wilderness, ovvero l’idea di una natura selvaggia senza presenza umana che è sostanzialmente un mito, una romanticizzazione. Possiamo tradurre rewilding con “inselvatichimento”, tematica che ha trovato ampio spazio di discussione e riflessione nelle pubblicazioni anglosassoni legate alla critica anticivilizzazione e all’anarchismo verde, ma che è ancora poco nota o presa in considerazione negli ambienti di critica radicale italiani. Citando direttamente le parole scritte da Hirundo come introduzione alla pubblicazione di due articoli di Four Legged Human, possiamo dire che “Inselvatichirsi non è solo un tentativo di fuggire nei boschi per vivere spensieratamente, fa parte di quella lotta al Leviatano che molte persone o almeno alcune, vogliono perseguire per costruire le fondamenta senza le quali sarà difficile pensare di poter vivere e cercare allo stesso tempo di sbarazzarsene.”

L’articolo che segue è la traduzione del paragrafo finale di un testo in lingua inglese intitolato Rewild or Die, revolution and renaissance at the end of civilization, scritto e pubblicato da Urban Scout. Spero possa essere utile per chiunque sia interessato al tema dell’inselvatichimento, del non addomesticamento e di tutte le tematiche annesse, affinchè possa far nascere riflessioni, dubbi, critiche e discussioni personali e condivise alla volta di un futuro selvatico.

Nessuno sa cosa ci riserverà il futuro, ma sappiamo che le civiltà distruggono la terra. La nostra civiltà non durerà ancora a lungo. Contro la civiltà è nato un movimento noto come inselvatichimento. Questo movimento ha una frontiera, e noi viviamo su di essa.

In genere ci riferiamo alle forze della natura come a forze fuori dal controllo umano. Non possiamo controllare la direzione del vento, non possiamo impedire che i campi si trasformino in foreste, non possiamo impedire alla Terra di girare intorno al sole. Credo che la cultura funzioni in modo analogo: una forza della natura fuori dal nostro controllo.

Spesso si discute se il comportamento umano derivi più dalla natura o dall’educazione. Ma non ho mai sentito dire che non esiste alcuna differenza tra i due concetti. Il fatto che questi elementi abbiano nomi distinti dà origine a una discussione priva di senso che serve solo a impedirci di capire come relazionarci con il mondo. Se crediamo che l’educazione esista in qualche modo separatamente dalla nostra natura, crediamo di avere un certo controllo sulla nostra natura. Ciò significa che il termine educazione descrive i sistemi che abbiamo istituito per controllare il comportamento, mentre la nostra natura appare come qualcosa di esterno al nostro sistema di controllo. Credo che questi sistemi di controllo derivino dalla nostra natura. Se i sistemi di controllo del comportamento provengono dalla nostra natura di animali socialmente organizzati, la nostra natura implica l’educazione e la nostra educazione non si separa dalla nostra natura. La nostra natura implica l’educazione. Si capisce cosa voglio dire?

Non credo che molte persone (a parte gli ingegneri genetici) avrebbero da ridire se sostenessi che la nostra natura non dipende da noi. Gli esseri umani hanno caratteristiche determinate dall’evoluzione. Il nostro comportamento varia a seconda della strategia di convivenza con questa natura. Potremmo dire che la cultura (quella che ci educa per davvero) ci controlla, che i miti o i ricordi dettano il modo in cui ci comportiamo e le decisioni che prendiamo. Ma al di sopra della cultura, al di sopra dell’educazione, ci sono la natura, l’ambiente e le leggi naturali del pianeta. Sebbene la nostra natura implichi l’educazione, le nostre strategie di educazione, il modo in cui creiamo un comportamento culturale, vengono dettate dall’ambiente in cui viviamo. Non abbiamo alcun controllo sulle forze o sui meccanismi della natura, ma solo sulle strategie per convivere con essi. Queste strategie si modellano a seconda dei sistemi ambientali. Poiché non abbiamo alcun controllo sui sistemi ambientali, in un certo senso non abbiamo alcun controllo sui sistemi culturali che si adattano ad essi. Abbiamo solo il potere di adattarci ai cambiamenti ambientali: la capacità di cambiare con l’ambiente, non di cambiare l’ambiente affinché viva con noi. Le persone devono rispondere ai cambiamenti ambientali o moriranno.

Mi riferisco a questo processo come “il potere del bisogno”. I bisogni fanno girare il mondo. Le persone hanno bisogno di cibo per vivere, quindi cacciano e raccolgono. Le persone hanno bisogno di sesso per proliferare, creare cultura e sentirsi bene, quindi fanno sesso. I bisogni possono essere fisici, come il bisogno di mangiare o di dormire. I bisogni possono essere emotivi, come il bisogno di sentirsi sostenuti. Possono essere mitologici o spirituali, come il bisogno di andare in paradiso o di sentirsi utili per un gruppo più grande. Nessuno di questi bisogni ha la stessa immediatezza del bisogno di acqua. Un mio amico si riferisce a questo fenomeno come “l’effetto acqua marrone”, ovvero le persone non prenderanno le armi finché non avranno acqua marrone che sgorga dai rubinetti. Quando la cultura non è in grado di soddisfare i bisogni diretti di sopravvivenza del proprio popolo, non può esistere. Abbiamo bisogno di acqua pulita per vivere. Ovvio!

Quando Rachel Carson scrisse Silent Spring, diede inizio a un movimento culturale di ambientalisti che prevedevano l’arrivo dell’acqua marrone. Attualmente la maggior parte delle persone (almeno in America) dispone di acqua di rubinetto pulita, a parte il cloro, la cloramina, il fluoro, l’arsenico e così via (non importa che l’acqua abbia un aspetto e un sapore pulito, credo). Anche se hanno visto il film “Una scomoda verità” e sono consapevoli della “crisi climatica”, hanno ancora l’acqua pulita del rubinetto, l’aria condizionata, l’accesso a Internet, i telefoni cellulari, i SUV, i McDonald’s, i cartoni animati del sabato mattina, gli happy hour speciali e la HBO. Finché questa cultura continuerà a fornire queste distrazioni privilegiate, solo una sottocultura di persone con la capacità di vedere e il cuore per sentire cercherà strategie alternative come l’inselvatichimento.

Inselvatichirsi non significa solo imparare a conoscere le piante commestibili e a lavorare la pelle di daino. Posso stare qui tutto il tempo che voglio, identificare piante e raccontare storie e avere bambini, e comunque il mondo morirà per mano dei civilizzati. La civiltà mi verrà incontro con violenza quando crollerà. Finché la civiltà detiene il monopolio della violenza e del controllo, finché il fuoco selvaggio ha combustibile da bruciare, abbandonare il sistema della civiltà per qualcos’altro rimane un problema. Esistono molte leggi che impediscono alle persone di dedicarsi all’inselvatichimento: tasse per la caccia e la raccolta e per il giardinaggio, regolamenti, restrizioni e imposte che rendono l’autosufficienza attraverso l’inselvatichimento un gioco difficile da giocare, soprattutto per una famiglia. Infrangere la legge (la minaccia di violenza della civiltà) è un passo inevitabile per creare una cultura selvatica e sopravvivere al collasso della civiltà. Inselvatichirsi significa anche reagire. Con il combustibile che brucia, un incendio selvaggio acquista slancio e sembra inarrestabile. Senza più combustibile da bruciare, inizia a morire.

Per poter lottare contro la civiltà, dobbiamo avere vite per cui valga la pena lottare. I popoli indigeni che hanno combattuto contro la civiltà avevano qualcosa che noi persone civilizzate non abbiamo: un legame con la terra e la famiglia per cui valeva la pena di lottare, di uccidere. I cacciatori-raccoglitori hanno combattuto per la terra, lo stile di vita e la cultura che avevano da milioni di anni, perché tutto questo dava loro la vita. Avevano un sistema che funzionava e che difendevano. Combattevano fianco a fianco con i loro fratelli e sorelle, zii e cugini e nonni e nonne, sia umani che non umani. Noi non abbiamo nulla di simile: nessuna cultura familiare, solidale e vitale per cui lottare o che si prenda cura di noi mentre cerchiamo di abbattere la civiltà. A meno che non ci sentiamo semplicemente dei suicidi, abbiamo bisogno di vite per cui valga la pena lottare. Inselvatichirsi significa rivendicare una vita degna di essere vissuta e difenderla da chi vuole addomesticarla.

Spesso si sente parlare di scialuppe di salvataggio per descrivere questi piani di sopravvivenza al collasso. Preferisco non usare questa espressione, perché le scialuppe di salvataggio suggeriscono semplicemente un luogo di sicurezza temporaneo. Vogliamo abbandonare la nave per una nuova, migliore di quella che abbiamo lasciato, non qualcosa di piccolo e temporaneo. Noè non costruì la sua arca come una scialuppa di salvataggio; la costruì come una barca abbastanza grande per tutti gli esseri viventi del mondo. Le culture rewilding non dovrebbero avere meno spazio.

Nella storia dell’inselvatichimento abbiamo tre atti: il collasso iniziale, il collasso profondo e il collasso successivo. Nel primo atto dobbiamo sviluppare un piano di fuga dalle barriere che ci tengono prigionieri della civiltà. Il secondo atto consiste nel vivere una vita per la quale valga la pena lottare, mentre teniamo duro e incoraggiamo il collasso. Nel terzo atto festeggeremo la fine della civiltà e continueremo a risvegliare tutti i luoghi che la civiltà ha addomesticato. Vedo un intero cast di personaggi che lavorano a questo scopo. Vedo persone che si stanno inselvatichendo al di fuori del controllo della civiltà, resistendo ad essa. Vedo persone ai confini della frontiera dell’inselvatichimento, che spingono la civiltà a ritirarsi dove ci sono i suoi punti deboli. Vedo persone nella tana del leone, che si ribellano proprio nel bel mezzo della civiltà. Vedo una sorta di “strada sotterranea della rinascita”, che aiuta coloro che sono nella civiltà a fuggire verso le aree selvagge.

Naturalmente, inselvatichirsi non significa per forza che si debba affrontare la civiltà a testa alta. Non tutti in una cultura assumono il ruolo di guerrieri. Abbiamo bisogno di nutrici e guaritori, madri e padri e tutto il resto. Basta avere chiaro se si è scelto un ruolo diverso in base alla paura di vivere come guerriero, e non mascherare questa paura con un’ideologia pacifista o condannare coloro che non hanno paura e vivono come guerrieri in prima linea. In qualità di guerriero, ricordate di non lasciare che la lotta contro la civiltà intralci la vita: fatela diventare parte di un’intera vita inselvatichita. Per cos’altro dobbiamo combattere se non per i nostri cari, umani e non umani? Per combattere, ho bisogno di una vita degna di essere vissuta, e per me questo significa avere figli e crescere una famiglia e imparare a cacciare e raccogliere e restituire alla terra e prendere a calci il culo della civiltà per la mia famiglia e per le culture selvatiche.

La frontiera dell’inselvatichimento è simile alla frontiera civilizzata, solo che va indietro: vedremo le persone smettere di lavorare la terra, di coltivare e di incoraggiare la transizione. Assisteremo alla violenza quando i civilizzati cercheranno di resistere a coloro che si ribellano. Piuttosto che vedere il selvaggio ritirarsi dalla civiltà, vedremo la civiltà ritirarsi dal selvaggio, finché un giorno non vedremo più la civiltà.

Andate là fuori e iniziate subito a inselvatichirvi. Piantate un frutteto. Proteggete le terre selvagge. Insegnate ai vostri figli che le “erbacce” non esistono. Parlate con gli altri non-umani. Parlate con gli umani. Spegnere la rete elettrica. Imparate a cacciare e a catturare senza gli strumenti moderni. Eliminate le strade. Create una famiglia. Trasformate una pelle di cervo in pelle di daino. Mantenete la propria posizione. Fatevi degli amici. Scoprite i nemici. Recuperate la terra dalla civiltà. Arrabbiatevi di brutto. Rilassatevi. Piangete. Ridete. Seguite il vostro cuore, seguite il vostro cuore, seguite il vostro cuore e vivete una vita degna di essere vissuta, degna di essere ricordata, degna di essere mitizzata finché il sole non inghiottirà il pianeta.

Avete una scelta: inselvatichitevi o morite.

Pubblicato da Stefano

Chi sono? Domanda troppo difficile a cui rispondere. Per farla il più semplice possibile mi chiamo Stefano, sono una creatura selvatica di 28 anni e da che ho ricordo amo stare all'aperto, a contatto con l'ambiente naturale e soprattutto camminare nei boschi e in montagna. Il grande gioco della vita mi ha portato sui sentieri dell'educazione in natura e della pedagogia del bosco, ambito in cui sono attualmente in formazione. Prima di questo ho fatto tante cose, alcune più interessanti di altre e ho seguito quasi sempre i miei interessi, le mie passioni e la mia motivazione intrinseca, dall'antropologia alla controcultura punk per citare due degli ambiti che mi hanno formato come individuo negli ultimi dieci anni della mia vita, sempre accompagnato da una profonda tensione anarchica, una spontanea coscienza ecologista, una radicale critica alla civilizzazione e la curiosità verso tutte le forme in cui si incarna e manifesta la selvatichezza e il non-addomesticamento dell'essere umano, degli animali e della natura.