GYITWAALKT: un dialogo su guerra e musica metal nella cultura Tsimshian

GYITWAALKT: un dialogo su guerra e musica metal nella cultura Tsimshian
Nella nostra ottica profondamente radicata in un etnocentrismo antistorico, siamo spesso portati a pensare che la musica metal sia un fenomeno appartenente quasi esclusivamente alla cultura occidentale e/o europea, spesso dimenticandoci o volutamente ignorando scene e band attive in continenti e zone del mondo quali Sud America, Africa e Sud Est asiatico. Questo nostro etnocentrismo si fa ancora più netto quando ci mostriamo totalmente ignoranti dinanzi all’esistenza di un buon numero di band, collettivi e individualità appartenenti alle popolazioni indigene e native che utilizzano il metal (principalmente estremo) come mezzo per preservare e diffondere le proprie culture, lingue e tradizioni, per imporre con decisione e rabbia un discorso politico basato sulla fondamentale questione della decolonizzazione o quanto meno della sempre attuale resistenza al colonialismo di ieri e di oggi. Qualche anno fa, sul blog Disastro Sonoro, ho già provato a trattare di metal (e punk) anticoloniale e indigeno attraverso due interviste: una con Ruohtta, progetto lappone che definisce la propria musica come “sapmi black metal” e che tratta tematiche anti-coloniali legate alla cultura Sami utilizzando lingua, riferimenti storici, culturali e spirituali nativi; l’altra, intitolata “indigenous resistance, decolonization and punk music”, con il collettivo Native punks dal guatemala.
Negli anni passati si sono rincorse le notizie sulla scoperta, in Canada così come negli USA, di fosse comuni di bambini delle First Nations nei pressi di quelle che furono le “scuole residenziali cattoliche”. La reazione delle differenti comunità native non è tardata ad arrivare e in certi casi la rabbia indigena è divampata in tutta la sua secolare voglia di vendetta e giustizia attraverso azioni anche violente come la distruzione delle chiese e di altre strutture simbolo del colonialismo europeo sul suolo canadese e nordamericano. Chiese date alle fiamme in nome della resistenza indigena e della vendetta anticoloniale che potevano richiamare, almeno ad uno sguardo distratto e facile alle romanticizzazioni, i roghi dei luoghi di culto cristiani riconducibili alla scena black metal norvegese nei primi anni 90, ma mossi da motivazioni ben più valide e meritevoli della nostra solidarietà e complicità. Una notizia quelle delle fosse comuni che di certo non può sorprendere in un continente nato dall’oppressione coloniale e dal genocidio dei popoli nativi, ma che torna a sottolineare l’importanza delle lotta e del movimento di decolonizzazione e di resistenza indigena.
Ed è proprio partendo da questa sempre più attuale necessità della lotta anticoloniale e, lo devo ammettere, da una mio estremo interesse storico-antropologico nei confronti delle culture appartenenti alle numerose First Nations indigene del territorio nord americano, che ho pensato fosse interessante tradurre questo articolo sulla concezione della guerra e del metal estremo nella cultura Tsimshian (popolazione indigena originaria della British Columbia) attraverso la musica dei Gyibaaw, band solita definirsi come “Tsimshian/Gitskan War Metal” e che ha avuto un ruolo fondamentale all’interno di quello che possiamo definire come “movimento del metal indigeno”. L’articolo in questione, il cui titolo originale è “Gyitwaalkt: A Dialogue on Tsimshian War and Metal”, è stato trascritto sottoforma di dialogo tra Spencer Greening, batterista dei Gyibaaw e Max Jacob Ritts, colono e ricercatore appartenente alla Gitga’at First Nation, ruota attorno all’analisi di “Gyitwaalkt“, canzone con cui si apre Ancestral War Hymns, primo e finora unico album della band pubblicato nel 2009.

 

“Gyitwaalkt” è la prima canzone di Ancestral War Hymns, un album registrato dalla band black metal indigena Gyibaaw. Il gruppo era ispirato musicalmente e spiritualmente dalle storie di un potente spirito lupo Tsimshian (“Gyibaaw”) che fa visita a persone ignare in tutto il territorio. La band Gyibaaw non era molto conosciuta nel nord della British Columbia, eppure la sua musica attirava pubblico da tutto il mondo e prefigurava una “rivolta del rumore” della musica popolare indigena in tutto il Canada.

Max: “Gyitwaalkt“. Cominciamo con la storia che sta dietro questa canzone.

Spencer: “Gyitwaalkt” significa guerriero in Sm’algyax. Abbiamo scritto questa canzone per rappresentare il digiuno cerimoniale di un guerriero e l’accesso al mondo degli spiriti. L’atto che precede l’entrata in guerra. Quando sento questa frase, penso a un guerriero che esce dal suo digiuno, quello che noi chiamiamo Suwilskuuks. Quando si digiuna si va nei boschi e ci si connette con il mondo degli spiriti. Di solito è attraverso la separazione del corpo fisico dal corpo spirituale, rifiutando cibo e acqua, ad esempio. E in questo processo di digiuno si mette in comunicazione il proprio corpo spirituale con la terra in cui si risiede. Il corpo spirituale di quella terra può accedere in te. Si diventa un contenitore aperto con cui gli spiriti possono lavorare. Potete sentire Jeremy che sussurra i naxnox [0:14-0:55]. I naxnox sono gli esseri spirituali che a volte ci possiedono, a volte ci danno risposte, a volte ci avvertono. Sono entità spirituali che ci danno indicazioni su come vivere con il mondo. Nella nostra cultura, dopo un digiuno c’era un potlatch in cui i guerrieri tornavano dalla foresta con i poteri dei naxnox. A volte i guerrieri si preparavano per la caccia, altre volte per la guerra. Nel contesto di questa canzone, è per la guerra. 

Max: Anche la qualità della produzione che hai scelto lo confermano. Nella musica popolare il riverbero viene abitualmente applicato per trasmettere una sorta di fusione tra spazio fisico e metallico, come nota lo storico Peter Doyle (2007). Mi sembra che la tua batteria porti con sé una parte importante di questo tema. La batteria che si sente all’inizio della canzone suggerisce un approccio tipicamente metal. Articola un ritmo “sludge” in 4/4, con l’enfasi sul terzo quarto. Ma sono più lenti della maggior parte del black metal. Si subordinano al tempo della batteria tradizionale che arriva verso la fine del brano. Così come le chitarre sono accordate al flauto di pan, i suoni metal seguono quelli tradizionalmente indigeni. Al termine del brano [1:55-2:12] i tamburi tradizionali scompaiono completamente dalla registrazione, e si ha questo costante suono di un tamburo tradizionale. Questo sembra esprimere una parte della trasformazione di cui parli. 

Spencer: Come batterista di “Gyitwaalkt” stavo pensando ad alcune storie di molto tempo fa. Le storie parlano di un ritmo costante quando le persone pagaiano in canoa. Quel ritmo avrebbe accompagnato il loro canto di guerra e sapevano quanta strada avevano percorso nell’acqua in base a quante volte l’avevano cantato. Misuravano la distanza attraverso la canzone. Perciò era importante per me catturare la costanza di quel ritmo in questo brano. Ascoltate la cassa [intorno a 1:00]. Volevo rappresentare la transizione dal remare verso la guerra all’effettivo arrivo in battaglia, vedendo effettivamente il nemico, dove si può facilmente immaginare che il cuore stia correndo e battendo all’impazzata. Non  sono mai stato in guerra, ma sono un cacciatore. Conosco la sensazione che si prova quando si viaggia per giorni e si trova un animale, il batticuore quando vedi quell’animale e sai che stai per prendere una vita, i rapidi kick della batteria rappresentano quel momento. 

Max: Mi sembra che la distorsione sia uno degli aspetti sonori dei Gyibaaw che suggerisce davvero la sua tensione decolonizzante. E qui sto pensando alle chitarre e al riverbero disordinato, ma anche ad alcune idee critiche indigene. Jodi Byrd (2011), ad esempio, sostiene che le “logiche rappresentative” dell’indigenità funzionano attraverso forme di distorsione, intorno alle alternanze di ciò che è atteso. E Jarrett Martineau (2015) enfatizza in modo simile le nozioni di distorsione. Tutto questo ha senso per voi? 

Spencer: Se stai dicendo che c’è una connessione tra la distorsione dei suoni e la rabbia, credo che sia una connessione valida. Quando Jeremy e io abbiamo scritto questa musica, eravamo arrabbiati con la Chiesa, con il Canada e con la storia di colonizzazione subita dai nostri popoli. Volevamo saperne di più e esprimere la nostra rabbia al riguardo. E la musica era un mezzo. E credo che questo ritorni alla discussione sui guerrieri. Gyibaaw ha spostato le aspettative sul linguaggio del black metal. Molti gruppi black metal guardano ai lupi come a serpenti o esseri cattivi, e poi venerano questo collegamento come se loro sono i “cattivi” della Bibbia. Il gergo del black metal spesso prende il “cattivo” del mondo cristiano – un demone o un serpente – e lo drammatizza. Questo mi ha fatto arrabbiare perché per noi non si trattava di drammatizzazione; abbiamo una relazione legittima con i Gyibaaw. Usando effettivamente la nostra antica lingua e parlando ai naxnox in questo modo, abbiamo trovato un’incredibile capacità di esprimere sentimenti sulla nostra patria ancestrale, sulla spiritualità e sulla nostra cultura guerriera. 

Max: Ciò che secondo me rende la canzone un mezzo efficace per esplorare la trascendenza sono le caratteristiche spettrali. La pesante applicazione del riverbero e la qualità generale del suono conferiscono alla vostra musica una sorta di lucentezza, come un velo che la avvolge. Propone una sfocatura tra la contemporaneità – in questo caso il black metal – e gli elementi del passato, ma elementi che non appaiono con forme fisse. Un esempio perfetto di ciò è la voce sussurrante di Jeremy [0:45-1:35]. Non si sa dove inizia e finisce la voce, non si sa dove la voce diventa chitarra. C’è questa persistente fusione dell’una nell’altra. Ha senso per voi?

Spencer: Si. Quando stavamo scrivendo questa musica, eravamo in uno spazio in cui la creazione musicale rappresentava un serio processo spirituale. E il suono, e ciò che il suono può catturare, è una parte importante di questo processo. Quando abbiamo prodotto Ancestral War Hymns, volevamo andare in un vecchio villaggio del nostro territorio e registrare quel luogo per ore – la natura di quel luogo. Volevamo poi sovrapporre l’intera registrazione alle canzoni dell’album. Perché la voce della nostra terra è così parte integrante della musica che le due dimensioni dovrebbero esistere insieme. Abbiamo sempre pensato che l’album fosse incompleto senza questo. Il nuovo libro di Leanne Simpson, As We Have Always Done (2017), contiene alcune idee che si connettono perfettamente con quanto sto dicendo. Descrive la rinascita come un processo mediato da forze spirituali. Descrive anche la nazione indigena come un sentimento che si irradia non solo verso l’esterno, ma anche verso l’interno. Credo che entrambe queste idee inizino a catturare i flussi di energia e spiritualità di cui parlo. Ma come si fa a dare un senso di queste idee come persona non indigena?

Max: Se devo essere sincero, ne comprendo soprattutto il senso di fallimento, o almeno di un senso di ciò che non so o non sento, anche se ho una dimensione dello spirituale. E questa non è una posizione facile per me, perché voglio “capire”, ma quello che sento spesso è la necessità di avere una approccio “critico” nella ricerca, che di solito equivale a renderla oggettiva e non “sentita”. Quindi, avverto sia i limiti della mia formazione sia la difficoltà di ignorare la mia formazione quando si parla in un certo modo di spiritualità. Ma sto anche pensando a questo fallimento in un registro sonoro e lo trovo utile. Un concetto che ho apprezzato e che spero di portare nel prossimo progetto di scrittura sui Gyibaaw, è quello della risonanza. Mi piace la nozione di Ronald Radano (2003) che definisce la risonanza come “il risuonare dopo un’origine non localizzabile“. Questo è il modo in cui sento i Gyibaaw – come una risonanza che non produce forme di significato condiviso che potrebbero essere esplorate in termini di razionalità comunicativa, ma un suono che rimane fondamentalmente misterioso e suggestivo piuttosto che come un ponte ermeneutico. 

Spencer: L’antropologo Marius Barbeau (1951) ha cercato di descrivere le connessioni spirituali degli indigeni con il proprio luogo d’origine nel contesto della performance musicale. Ma qui c’è un’idea di etnografia di salvataggio, che presuppone che la cultura sia statica. Che non si possa imbrigliare il naxnox se non lo si fa secondo i vecchi metodi. Collegando questo aspetto ai Gyibaaw, abbiamo avuto la sensazione consapevole di essere stati delusi dai nostri ascoltatori, che erano consapevoli delle nostre nuove forme di connessione. Perché nella musica occidentale c’è questa tendenza a trascurare ciò che è spirituale. Non voglio generalizzare. Ma spesso l’aspetto spirituale di questo tipo di musica non viene percepito, e credo che ciò sia dovuto più in generale a un’idea occidentale di musica come intrattenimento e non come pratica. 

Max: Vorrei farti una domanda più dettagliata su questo suono risonante. Che cosa significa che il suono del black metal è sfocato e distorto nella musica dei Gyibaaw? Questo suono – un contributo a ciò che sto chiamando risonanza – rende possibile l’esplorazione di temi indigeni in un modo particolare?

Spencer: Mettiamola così. Ho partecipato a cerimonie in cui medicine people suonano una canzone su un secchio di latta anziché su un tamburo – per alcuni potrebbe non essere l’ideale. Le persone vorrebbero avere un tamburo dal suono perfetto. Ma in quel momento il secchio di latta era l’unica cosa presente e gli spiriti reagiscono ad esso: si uniscono, parlano, ballano, non giudicano la materia come facciamo noi nel mondo fisico. È tutta una questione di connessione spirituale e della sua forza nel momento in cui si suona. Se si dicesse a quella persona di medicina: “No, fermati, andiamo a trovarti un tamburo dal suono perfetto” – si toglierebbe la connessione spirituale da tutto questo. Quindi la qualità è importante. Ma non si tratta di cercare la migliore qualità di suono, si tratta di cercare un suono che rappresenti la nostra spiritualità, la nostra cultura, la nostra guerra e la nostra cultura guerriera nel miglior modo possibile in quel momento. In questo caso, il potere spirituale o l’energia nell’atto del rituale musicale è più importante della qualità del suono.

Max: Forse i suoni possono diventare più potenti per esprimere l’attaccamento alle terre e alle acque indigene, non pretendendo di desiderare una sorta di perfezione sonora o una trasmissione più chiara. Si potrebbe avere il miglior tamburo, ma questo non aumenterebbe la componente spirituale in modo necessariamente equivalente. 

Spencer: Giusto. Questo ha senso.

Max: “Gyitwaalkt” solleva anche la questione del guerriero nel momento contemporaneo. So che tu sei un grande sostenitore del film “Once Were Warriors” (1994; regia di Lee Tamahori). È una rappresentazione piuttosto brutale della vita dei Maori sotto la colonizzazione e del tipo di violenza unilaterale che la colonizzazione facilita. Mi chiedo in che modo la tua canzone esplori questa politica di rappresentazione. La questione di cosa significhi essere guerrieri. La canzone sembra voler rivalorizzare il concetto di guerriero, quello che viene svilito in condizioni coloniali o reso espressione di violenza insensata. C’è anche il rifiuto di accettare la narrazione dell’ “indiano ecologico“. La cultura guerriera era importante nella vita degli Tsimshian. Quindi, almeno per me, “Gyitwaalkt” parla di “warrior-ness”, un’idea che informa lo status politico contemporaneo degli Indigeni così come di quelli storici. 

Spencer: Questo ha a che fare con i drastici cambiamenti che gli indigeni hanno visto negli ultimi cento anni, o forse a partire dalla fine del 1800. I ruoli sociali sono stati trasformati e imposti. Cinquecento anni fa, era normale che un guerriero combattesse la sua battaglia in una canoa da guerra. Di quale formazione ha bisogno il guerriero di oggi? Come cambia il nostro addestramento con il nostro posto nel processo di decolonizzazione? Per me queste sono domande importanti da porre, e me le pongo regolarmente.

Max: Molti scrittori indigeni contemporanei sottolineano l’importanza degli interventi personali e creativi per rispondere a queste domande. 

Spencer: Per i Gyibaaw, un aspetto della decolonizzazione è quello di affrontare questa questione attraverso le forme attuali di musica, la musica contemporanea perché, dopotutto, abbiamo a che fare con le lotte indigene contemporanee. In un certo senso, il black metal è una forma di protesta, di rifiuto e di smantellamento delle azioni coloniali perché è radicato nel rifiuto delle religioni coloniali e degli ideali che ne derivano. Il black metal enfatizza la forza di conoscere se stessi e di fondare il proprio pensiero sulla verità personale, culturale e mistica. Tuttavia, è triste che questo sia spesso confuso con il nostro attuale contesto coloniale di patriarcato bianco. Stavamo scrivendo questa musica durante l’apice della nostra lotta contro l’Enbridge Northern Gateway Pipeline. Eravamo davvero entusiasti di proteggere ciò che eravamo come popolo legato alla terra. La nostra musica alimentava un senso di identità guerriera che derivava dalla necessità di combattere Enbridge. Ma questo spirito è vero e presente sia che la lotta sia contro la distruzione del territorio indigeno o semplicemente contro lo status quo coloniale. Trovare se stessi e sapere quale ruolo si deve assumere nella società è una parte importante di tutto questo. All’epoca, vedevamo il nostro ruolo come musicisti e lo usavamo per esprimere ciò che dovevamo sul bisogno di essere guerrieri indigeni.

Max: Forse come la gente del campo di Unist’ot’en?

Spencer: Sì. Ricordo quando abbiamo sentito parlare dell’accampamento Unist’ot’en e di quanto fosse cocnreta la legge indigena che praticavano. Questo rappresentava totalmente il tipo di indole guerriera che vogliamo esplorare nella nostra musica. 

Max: Puoi dire di più su questa “indole guerriera“?

Spencer: Se vogliamo esplorare la figura del “guerriero” attraverso la musica, credo sia fondamentale riconoscere che la nostra musica racconta una storia legata al contesto sociale. Durante la colonizzazione, i ruoli sociali tradizionali degli Tsimshian sono stati mantenuti, ma sono apparsi in modi diversi. Il ruolo del guerriero è quello di dare speranza al nostro popolo in tempi di lotta, spesso per proteggere, ma anche per opporsi o creare un cambiamento attraverso la lotta. Nel nostro contesto politico attuale, possiamo opporci alla colonizzazione in molti modi, uno di questi è la musica. Per i Gyibaaw, questo significa usare la musica per assumere il ruolo di guerriero o decolonizzatore. Se riusciamo a influenzare il pubblico sulle lotte politiche che affrontiamo, e loro rispettano il nostro messaggio, allora la musica diventa un luogo costruttivo per il cambiamento sociale. 

Max: Quindi per te la musica decoloniale riguarda più le pratiche e gli orientamenti politici che i generi specifici. È così?

Spencer: Gli indigeni affrontano diverse questioni politiche attraverso il suono. In alcuni casi, per noi significava alzarsi in piedi in una stanza piena di bigottismo e odio e dire: “Ehi, noi siamo così e siamo a favore di questo stile di vita”. In altri casi, ha significato trasmettere questi stessi messaggi alla radio per un pubblico più vasto, anche se questo tipo di suono non era convenzionale. E ancora, in altri casi, si trattava di usare musica tradizionale, ma scegliendo di non parlare in una lingua tradizionale. Scegliere di utilizzare lingue indigene sopravvissute a tentativi di genocidio è una decolonizzazione attraverso la politica del suono.

Dalle società segrete e dai gruppi di danza Tsimshian, alle bande di ottoni Tsimshian nell’Ottocento, a mio nonno Johnny Pahl che insegnava a Jeremy e a me il country e il western, la musica è stata un’ancora di salvezza per gli indigeni. È importante ricordare che la musica è uno strumento sociale, spirituale e emozionale che ci è stato tramandato per generazioni. Può darsi che non avrà più l’aspetto o il suono di una volta, ma il legame con il suono e la sua influenza nella politica sociale degli Tsimshian è sempre stata forte. Noi stiamo discutendo di una potente forma di espressione. Questo non significa che noi, in quanto indigeni, condividiamo o facciamo sempre la musica per il pubblico o per i non indigeni. Alcune canzoni devono rimanere protette.

Max: E forse il modo stesso in cui la conoscenza viene protetta cambia nel tempo – per evitare la cattura coloniale, intendo. C’è un’idea di estetica indigena che cambia sempre, pur rimanendo radicata, ma incarnando una tendenza creativa “fuggitiva”. Questa è un’idea che Jarrett Martineau e Eric Ritskes (2014) esplorano.

Ma la mia domanda allora è: perché i Gyibaaw hanno scelto il black metal? Nella mia ricerca cerco di far notare che molti giovani artisti indigeni oggi hanno scelto il black metal per esprimersi. E come dice lei, è un collegamento pericoloso. Ci sono connessioni di lunga data tra il black metal e l’etno-nazionalismo bianco, il neonazismo, il patriarcato. Anche quando gli elementi fascisti vengono minimizzati, la scena black metal rimane palesemente sessista. “Gyitwaalkt” sarebbe stato suonato in spazi sociali piuttosto incasinati, dove le idee di preparazione alla battaglia e di guerrieri avrebbero potuto indicare cose con cui non si voleva essere associati. Questo è entrato in contrasto con i valori che tu hai attribuito alla musica? 

Spencer: In molti casi, la scena black metal rappresenta l’epitome di sessismo, patriarcato e colonizzazione. Quindi sì, l’abbiamo visto ogni sera. Ma questo aspetto della scena musicale si riferisce alla società in generale, perché alla fine dei conti il black metal è ancora radicato nella cultura pop razzista e sessista di una società coloniale. E questo è sicuramente vero nel Canada occidentale e in particolare nella Columbia Britannica, dove abbiamo suonato innumerevoli concerti. E ne hai scritto nella tua tesi di laurea, a proposito delle volte in cui i suprematisti bianchi di Edmonton venivano da noi e ci lodavano per per la nostra autenticità, e altre volte in cui i suprematisti bianchi non volevano fare il sound check per noi a causa di ciò che rappresentavamo! 

In Canada ci sono diverse band black metal che si dedicano ancora alla guerra etnonazionalista violenta. Si tratta di un tipo di guerriero diverso da quello che ci interessava esplorare. Ma, come accennato in precedenza, a un certo livello il black metal ha anche radici nella decolonizzazione. Molti contenuti lirici e l’espressione di sé che provengono dal metal estremo è radicato nella cultura e nell’identità. Per esempio, gruppi indigeni come Resistant Culture, Sarcofago, Illapa, Volahn. Queste band attingono a valori sociali legittimi radicati nei loro territori. Credo che ci siano differenze locali in termini di storie esplorate, di connessioni con certi animali e spiriti, di lingua e di lotte sociali. Ma anche molte similitudini nell’essere indigeni sotto il colonialismo e nel suonare questa musica. 

Questo mi fa venire in mente una domanda che vorrei farti, e che forse leggere il tuo capitolo mi ha aiutato a rispondere un po’. Ogni volta che che suonavo un concerto con i Gyibaaw, mi chiedevo: Ho fatto qualcosa? o abbiamo fatto qualcosa come band, che ha fatto sì che la gente si fermasse a pensare alla colonizzazione? Quindi, la mia domanda per te è: in che modo abbiamo fatto questo per voi? 

Max: È una domanda complicata. Non ne sono sicuro, ma scrivendo di Gyibaaw, stavo cercando di fare un punto sull’opacità musicale – sull’opacità come modo di pensare alla conoscenza e alla politica. Credo che questo faccia parte del discorso. La musica può essere un terreno ricco per creare apprezzamenti, che non è la stessa cosa del conoscere o del possedere. E penso che una parte importante dell’apprezzamento di un pezzo come “Gyitwaalkt” come colono sia imparare ad apprezzare di non essere il destinatario. “Gyitwaalkt” approfondisce il mio apprezzamento per la North Coast e per il mio posto di ospite, il che è meraviglioso perché è anche un ottimo brano black metal. 

Spencer: Ricordo la prima volta che abbiamo suonato al Rickshaw qui a Vancouver. Era con i Wolves in The Throne Room. Jeremy ha aperto il nostro set riconoscendo il territorio Coast Salish, e poi siamo partiti con una canzone: “The War Was Fought on Our Land”. Anche se non eravamo nel territorio Tsimshian, era importante per noi esprimere questa verità indigena. Per essere in grado di relazionarci con l’atto di colonizzazione e di difesa del territorio indigeno. Speravo che le persone lo sentissero e lo capissero. Il giorno dopo il Georgia Straight ha scritto di quel concerto, menzionando la particolarità di questo evento e l’apprezzamento della folla per il gesto di Jeremy. È stata una cosa enorme per noi.

Pubblicato da Stefano

Chi sono? Domanda troppo difficile a cui rispondere. Per farla il più semplice possibile mi chiamo Stefano, sono una creatura selvatica di 28 anni e da che ho ricordo amo stare all'aperto, a contatto con l'ambiente naturale e soprattutto camminare nei boschi e in montagna. Il grande gioco della vita mi ha portato sui sentieri dell'educazione in natura e della pedagogia del bosco, ambito in cui sono attualmente in formazione. Prima di questo ho fatto tante cose, alcune più interessanti di altre e ho seguito quasi sempre i miei interessi, le mie passioni e la mia motivazione intrinseca, dall'antropologia alla controcultura punk per citare due degli ambiti che mi hanno formato come individuo negli ultimi dieci anni della mia vita, sempre accompagnato da una profonda tensione anarchica, una spontanea coscienza ecologista, una radicale critica alla civilizzazione e la curiosità verso tutte le forme in cui si incarna e manifesta la selvatichezza e il non-addomesticamento dell'essere umano, degli animali e della natura.