Sulla selvatichezza dei bambini (di Carol Black)

Sulla selvatichezza dei bambini (di Carol Black)

La rivoluzione non avverrà in un’aula scolastica

Perchè ho deciso di tradurre e pubblicare questo lungo scritto di Carol Black? Domanda allo stesso tempo di semplice e complicata risposta, come lo sono tutte quelle che nascono da motivazioni sentite spontaneamente più che razionalmente ragionate. Da una parte sicuramente quanto scritto dall’autrice americana risuona in me, specialmente per quanto riguarda la visione dei bambini e dell’educazione che sto iniziando a delineare in forma più coerente negli ultimi anni e che mi ha avvicinato al mondo della descolarizzazione, dell’unschooling e in special modo della pedagogia del bosco. Dall’altra parte perchè in me è sempre r-esistita una visione in merito alla selvatichezza dei bambini (e di certi adulti) come forma di resistenza ad un sistema economico-politico ed tecno-industriale che sempre di più ci ha allontanato dal mondo naturale (con tutte le cause che ne conseguono) e ci ha socializzato ai miti del progresso, della competizione e del profitto, allontanandoci da una nostra propensione naturale all’autonomia. Ritengo dunque che le parole scritte da Carol Black possano risultare interessanti per tutte quelle persone che in maniera cosciente o meno, mettono in dubbio l’esistente in cui viviamo, le sue strutture e le sue dinamiche, partendo dalla visione socialmente diffusa e accettata dell’apprendimento, dell’educazione e dell’infanzia. Affinchè i bambini selvatici e le bambine selvatiche non vengano più addomesticati/e e possano farsi creatori/creatrici e portatori/portatrici di una reale cultura della selvatichezza e dunque della libertà.
O per dirla con Selima Negro: “il bambino selvatico, quello che ha interiorizzato la non supremazia dell’essere umano sulle altre forme di vita, fa paura: si avvicina troppo all’idea che il potere, il controllo degli adulti non è poi così necessario né assoluto”.

Nella selvatichezza c’è la conservazione del mondo“. Thoreau lo dice in “Camminare” e Jack Turner, nella sua splendida raccolta di saggi “Il selvaggio astratto“, si chiede quanti di noi abbiano idea di cosa significhi. Turner sottolinea che spesso la citazione viene interpretata erroneamente come “La natura selvaggia è la conservazione del mondo“, ma Thoreau non ha detto che la conservazione della natura selvaggia preserva il mondo; bensì che la natura selvaggia preserva.

Che cosa significa? Turner ha rintracciato nel “Fact-book” di Thoreau un riferimento alla parola “wild” come “participio passato di “to will, self-willed”. Il selvaggio, quindi, è l’auto-volontario, quello che vive in base alla propria natura intrinseca piuttosto che piegarsi a qualche forza estrinseca. Ma siamo anche confusi, dice Turner, su ciò che Thoreau intendeva per “mondo”.

Verso la fine di “Camminare” dice: “Ci è stato detto che i Greci chiamavano il mondo κόσμος, Bellezza o Ordine, ma non vediamo chiaramente perché lo facessero, e lo consideriamo al massimo solo un curioso fatto filologico“. La nostra parola moderna è cosmo e gli studi filologici più recenti suggeriscono il significato di ordine armonioso. Quindi, in senso lato, possiamo dire che “In Wildness is the preservation of the World” di Thoreau riguarda la relazione tra le “cose” libere, autodeterminate e autocoscienti e l’ordine armonioso del cosmo. Thoreau sostiene che il primo preserva il secondo.

Bene, allora. Che cosa significa e che cosa facciamo a questo proposito?

All’inizio del XX secolo i teorici dell’educazione erano abbastanza consapevoli del fatto che stavano progettando le scuole allo scopo di adattare i bambini al nuovo ordine industriale. Questi pedagogisti sostenevano che i bambini dovevano liberarsi della loro indole “selvaggia” e sviluppare abitudini “civilizzate” come la puntualità, l’obbedienza, l’ordine e l’efficienza. Come disse Ellwood P. Cubberley, preside della Stanford University School of Education, nel 1898:

Le nostre scuole sono, in un certo senso, fabbriche, in cui le materie prime – i bambini – devono essere plasmate e trasformate in prodotti… Le caratteristiche della produzione derivano dalle esigenze della civiltà del XX secolo, ed è compito della scuola costruire i suoi alunni secondo le caratteristiche stabilite.

Nella mente di questi artefici della scuola moderna, “il bambino”, “il selvaggio” e “la natura” erano concetti omologhi; tutti rappresentavano qualcosa di intrinsecamente corrotto, bestiale, informe. “La natura”, afferma William Torrey Harris, commissario americano per l’istruzione dal 1889 al 1906, è “l’antitesi polare” della “natura dell’uomo come spirito”. E approfondisce:

Dallo stato selvaggio l’uomo si eleva creando nuove nature, una sopra l’altra; realizza le sue idee nelle istituzioni e trova in questi mondi ideali la sua vera casa e la sua vera natura.

Lo scopo della scuola, in altre parole, era quello di “elevare” i bambini dal loro stato naturale (che era, secondo Harris, “totalmente depravato“) e di addestrarli a prendere il loro posto nel grande progetto dell’uomo di “subordinare il mondo materiale al suo utilizzo”. Come spiega Harris, “le nazioni e i popoli del mondo si classificano in alto o in basso… a seconda del grado in cui hanno realizzato questo ideale di umanità“. Le culture che non vedevano le cose in questo modo si trovavano di fronte a una scelta: “assorbire la nostra cultura e diventare intellettualmente produttive o altrimenti… morire. Questo è il giudizio pronunciato dagli anglosassoni sulle razze inferiori“.

Abbiamo dimenticato che questi erano gli scopi originari delle istituzioni simili a fabbriche in cui la maggior parte di noi è cresciuta; parliamo della nostra esperienza scolastica familiare quasi come se fosse una parte integrante della natura stessa, una parte naturale ed essenziale dell’infanzia umana, piuttosto che il vasto ed estremamente recente esperimento di ingegneria sociale che in realtà è. Ma il passato, come notoriamente osservava Faulkner, non è mai morto; non è nemmeno passato. Questi scopi originari sono stati così efficacemente incorporati nella struttura della scuola moderna – con i suoi sottostanti sistemi di confinamento, controllo, standardizzazione, misurazione e applicazione – che oggi vengono realizzati anche senza la nostra consapevolezza o il nostro consenso.

Naturalmente non si realizzano nel modo in cui gli ingegneri sociali avevano in mente. Questi uomini visionari ritenevano che la natura umana fosse infinitamente malleabile; i bambini dovevano essere plasmati e modellati come qualsiasi altra materia prima industriale in un prodotto finito predeterminato, e l’utopia industriale sarebbe stata il prodotto finale. Ma non si era tenuto conto del potere dell’istinto di dissenso dei bambini. La mente selvaggia cerca di proteggersi come fa un cavallo sotto sella, con mille strategie di resistenza, ritiro, disattenzione, dimenticanza; i bambini non faranno quello che le autorità dicono di fare, non impareranno quello che gli esperti dicono di dover imparare, e per ogni diligente ape-lavoratrice addestrata alle STEM che creiamo ci sono dieci giovani annoiati, resistenti, apatici, alienati sia dalla natura che dai loro stessi cuori incatenati.

Il passato non è morto. Non è nemmeno passato.

Quando prendiamo per la prima volta i bambini dal mondo e li mettiamo in un istituto, loro piangono. Una volta succedeva il primo giorno di scuola materna, ma ora succede sempre più presto, a volte quando hanno solo poche settimane di vita. “Non si preoccupi”, dice dolcemente la gentile maestra, “appena se ne andrà starà bene. Non ci vorrà più di qualche giorno. Si adatterà”. E lo fa. Si adatta a un mondo interno fatto di mattoni e plastica, di luce fluorescente e tende socchiuse (non importa che gli studi dimostrino che i bambini non crescono bene alla luce fluorescente come alla luce del sole; c’era davvero bisogno che ce lo dicessero). Alcuni bambini soffrono più a lungo di altri, guardando attraverso le lamelle delle tende il mondo luminoso esterno; alcuni resistono più a lungo di altri, escludendo la gentile insegnante, ostacolandola quando possono, rifiutandosi di stare fermi quando glielo dice (questa resistenza, ci viene detto, è un “disturbo“). Il mondo di mattoni diventa il loro mondo. Non conoscono i nomi degli alberi fuori dalla finestra dell’aula. Non conoscono i nomi degli uccelli sugli alberi. Non sanno se la luna è crescente o calante, se quella bacca è commestibile o velenosa, se quel canto è di accoppiamento o di avvertimento.

È in questo contesto che il paladino utopico di oggi propone di insegnare l'”ecoalfabetizzazione”.

Un bambino libero all’aria aperta imparerà a conoscere le pietre piatte sotto cui si nascondono i gamberi, le pozze d’ombra dove riposano le grandi trote, i pendii rocciosi dove crescono le bacche selvatiche. Imparerà i disegni delle onde, quali rami degli alberi sopporteranno il loro peso, quali ramoscelli prenderanno fuoco, quali piante hanno le spine. Un bambino a scuola deve imparare cos’è un “bioma” e come usare i logaritmi per calcolare la biodiversità. La maggior parte di loro non lo impara, ovviamente; la maggior parte di loro non ha interesse a impararlo e la maggior parte di quelli che lo fanno lo dimenticano il giorno dopo il test. I nostri “standard” proclamano che i bambini capiranno l’intricato funzionamento degli ecosistemi, i principi dell’evoluzione e dell’adattamento, ma uno su quattro lascerà la scuola senza sapere che la terra gira intorno al sole.

Un bambino che sa dove trovare le bacche selvatiche non dimenticherà mai questa informazione. Una persona “non istruita” sugli altopiani della Papua Nuova Guinea può riconoscere settanta specie di uccelli dal loro canto. Uno sciamano “analfabeta” in Amazzonia può identificare centinaia di piante medicinali. Un aborigeno australiano porta nella sua memoria una mappa della terra codificata in un canto che si estende per migliaia di chilometri. Le nostre menti sono evolute per contenere grandi quantità di informazioni sul mondo che ci ha dato la vita e per trasmetterle facilmente da una generazione all’altra.

Ma per conoscere il mondo, bisogna vivere nel mondo.

Le mie figlie, che non andavano a scuola, a volte guardavano gruppi di scolari che ricevevano la loro dose prescritta di “educazione ambientale”. In una giornata di sole lungo una costa rocciosa, una massa di quattordicenni con cartellette in mano si aggira senza meta tra le pozze di marea, cercando di non bagnarsi le scarpe, guardando i loro fogli di lavoro più che la vita che brulica nell’acqua chiara e salata. All’inizio di un sentiero in una catena montuosa costiera, un pullman di bambini di nove anni si precipita portando (e facendo cadere) foglietti rosa che descrivono una “caccia al tesoro” in cui verrà chiesto loro di distinguere gli “oggetti che si trovano in natura” dagli “oggetti che non si trovano in natura”. (Scopriamo diversi oggetti di plastica nascosti dai loro insegnanti lungo il sentiero vicino al parcheggio; ovviamente non hanno il tempo di percorrere tutti i tre chilometri fino alla cascata). Presso una zona umida di salici piena di vita, una classe di “biodiversità” della scuola media viene radunata all’aperto, le vengono concessi dieci minuti per osservare gli uccelli e poi le viene chiesto di formulare un’ipotesi scientifica e un protocollo sperimentale per verificarla. Uno dei ragazzi propone un esperimento che prevede la chiusura con chiodi dei becchi delle anatre selvatiche.

In questi giorni si sta facendo strada la consapevolezza della follia di crescere i bambini quasi interamente in casa, ma come al solito la risposta della nostra società alla sua stessa follia è quella di creare programmi artificiali progettati per risolvere i nostri problemi artificiali nel modo più artificiale possibile. Fondiamo organizzazioni senza scopo di lucro, sponsorizziamo conferenze, progettiamo programmi di studio e di doposcuola e siti web interattivi graficamente accattivanti, il tutto creando l’impressione davvero da incubo che per portare i vostri figli all’aria aperta dobbiate prima richiedere lo status di 501(c)3 [nota in fondo all’articolo], fare domanda per una sovvenzione federale e assumere un direttore esecutivo e un coordinatore di programma. Cerchiamo di risolvere le carenze del nostro curriculum obbligatorio stilando nuovi elenchi di costrizioni.

Ma la verità è che non sappiamo come insegnare ai nostri figli la natura perché noi stessi siamo cresciuti nel mondo dei mattoni. Siamo, nel linguaggio dei riabilitatori di animali selvatici, non liberabili. Mi occupavo di recupero e riabilitazione della fauna selvatica e tutti sapevamo che un giovane animale tenuto troppo a lungo in gabbia non sarebbe stato in grado di sopravvivere in natura. Spesso, quando si apre la porta della gabbia, l’animale ha paura di uscire; se esce, non sa cosa fare. Il mondo è diventato sconosciuto, un luogo alieno. Questo è ciò che abbiamo fatto ai nostri figli.

Questo è ciò che è stato fatto a noi.

Dopo sette generazioni di questo esperimento su vasta scala, ora dobbiamo inviare gli scienziati sul campo per cercare di capire chi saremmo potuti essere. Studi su studi dimostrano che il nostro distacco dalla natura sta aumentando i tassi di ansia e depressione, che la nostra mancanza di attività fisica sta portando a diagnosi di ADHD e di obesità e persino di diabete di tipo 2. Ciò che è meno compreso è come la nostra separazione dal mondo stia cambiando il nostro modo di apprendere.

In molte società rurali basate sulla terra, l’apprendimento non è forzato; ci si aspetta che i bambini osservino, assorbano, pratichino e padroneggino volontariamente le conoscenze e le abilità di cui avranno bisogno da adulti, e lo fanno. In queste società – che esistono in tutti i continenti abitati – anche i bambini molto piccoli sono liberi di scegliere le proprie azioni, di giocare, di esplorare, di partecipare, di assumersi responsabilità significative. L'”apprendimento” non è affatto concepito come un’attività speciale, ma come un sottoprodotto naturale dell’essere vivi nel mondo.

I ricercatori stanno scoprendo che i bambini in questi contesti trascorrono la maggior parte del tempo in uno stato di attenzione completamente diverso da quello dei bambini delle scuole moderne, uno stato che la ricercatrice di psicologia Suzanne Gaskins chiama “attenzione aperta”. L’attenzione aperta è ampiamente concentrata, rilassata, vigile; Gaskins suggerisce che potrebbe avere molto in comune con il concetto buddista di “mindfulness”. Se qualcosa si muove nell’ampio campo della percezione, il bambino lo noterà. Se succede qualcosa di interessante, può osservarlo per ore. Un bambino in questo stato sembra assorbire la sua cultura per osmosi, raccogliendo per gradi impercettibili ciò di cui parlano gli adulti, ciò che fanno, come pensano, cosa sanno.

Non avevamo un nome, ma io e i miei amici notavamo spesso che i nostri figli, che non andavano a scuola, avevano questa qualità di attenzione mentre si muovevano nel mondo. Erano in uno stato mentale diverso da quello dei bambini scolarizzati. Lo si vedeva. Notavano tutto. Ricordavano tutto. La loro mente era aperta, chiara, vigile, a proprio agio. Se qualcosa catturava il loro interesse, se ne occupavano con una concentrazione assoluta. Quando abbiamo incontrato adulti abituati ad avere a che fare con gruppi di scolari – nei musei, negli acquari, nei siti archeologici, nelle escursioni per la ricerca di animali, nelle pulizie delle spiagge, nei progetti di citizen science – ci hanno detto che non avevano mai visto bambini così. Ne sarebbero rimasti stupefatti. Si aspettavano che tutti i bambini fossero agitati, in tensione, in preda a un’energia repressa, come un cane che è stato chiuso in casa tutto il giorno.

Se gli educatori professionisti non riescono a capire come i ragazzi al di fuori della scuola imparino così tanto senza essere istruiti, forse è perché non capiscono come funziona questo tipo di attenzione. La spengono non appena suona la campanella. A scuola i bambini devono spegnere il loro potere di osservazione, devono restringere la loro attenzione e “concentrarsi”, il che significa che non devono notare ciò che accade intorno a loro. Si dice loro di non guardare fuori dalle finestre. Si dice loro di non lasciare che i loro occhi, o la loro mente, vaghino. A un bambino che mantiene uno stato di attenzione aperta in classe viene diagnosticato un “disturbo” dell’attenzione e viene sottoposto a un trattamento farmacologico.

Naturalmente l'”attenzione aperta” non può insegnare molto se si è confinati per dodici anni in un ambiente di apprendimento deprivato: una stanza di mattoni di cemento con tende semichiuse. (Uno studio ha persino suggerito di eliminare le bacheche colorate dalle aule dell’asilo per aiutare i bambini a rimanere “concentrati”). Una volta che si è stati isolati dal mondo in questo modo, e una volta che si è spento il proprio stato naturale di attenzione aperta al mondo, non si impara molto quando finalmente si viene lasciati fuori. Tutto è confuso, tutto ci annoia.

È fondamentale che lo stato di “attenzione aperta” non venga forzato. Gli adulti di molte culture non industrializzate comprendono che la mente stessa è selvaggia, autonoma; non può essere forzata. La mente deve rivolgere l’attenzione verso il mondo di sua spontanea volontà, aprendosi, cercando, espandendosi, creando le proprie connessioni con il movimento frattale di una fronda di felce che si srotola o di un albero che cerca la luce del sole e l’acqua. Come una lumaca che esce dal guscio, si tira indietro e si chiude quando viene minacciata, bloccata, spinta. Questo è considerato ovvio in molte culture; è il senso comune, qualcosa che tutti sanno. La scrittrice inuit Mini Aodla Freeman racconta che, quando arrivò per la prima volta a Sud dall’Artico, la cosa che la sorprese di più furono i bambini:

Non è stato permesso loro di essere normali come lo sono i bambini nella mia cultura: liberi di muoversi, di fare domande, di pensare ad alta voce e, soprattutto, di fare commenti per diventare più saggi… Per la mia gente, una tale disciplina può impedire a un bambino di crescere mentalmente, uccidendo il suo senso di interesse.

Se si ostacola troppo la volontà di un bambino quando è piccolo, dice Aodla Freeman, in seguito diventerà poco collaborativo e ribelle (suona familiare?) Questo punto di vista è diffuso in tutto il mondo, in molte parti delle Americhe, in Africa, India, Asia, Papua Nuova Guinea. È stata, ovviamente, una grande fonte di frustrazione per i primi missionari nelle Americhe, che sono stati ostacolati nei loro sforzi di educare i bambini indigeni da genitori che non permettevano che fossero picchiati: “I selvaggi”, si lamentava il missionario gesuita Paul le Jeune nel 1633, “non possono castigare un bambino, né vederne uno castigato. Quanti problemi ci darà questo per realizzare i nostri piani di insegnamento ai giovani!”.

Ma come ci dice l’anziano ed educatore Odawa Wilfred Peltier, l’apprendimento – come tutte le relazioni umane – deve basarsi sul principio etico della non interferenza, sul diritto di tutti gli esseri umani di fare le proprie scelte, a patto che non interferiscano con nessun altro. Come ci dice la studiosa e autrice Nishnaabeg Leanne Betasamosake Simpson, l’apprendimento – come tutte le relazioni umane – deve basarsi sul principio etico del consenso, sul diritto di tutti gli esseri umani di essere liberi dalla violenza e dall’uso della forza. Simpson spiega:

Se i bambini imparano a normalizzare il dominio e il non consenso nel contesto dell’educazione, allora il non consenso diventa una parte normalizzata del “kit di strumenti” di coloro che hanno ed esercitano il potere… Questo è impensabile all’interno dell’intelligenza Nishnaabeg.

È interessante notare che i più brillanti artisti e scienziati delle società euro-occidentali ci dicono esattamente la stessa cosa: che è proprio questo stato di attenzione aperta, di curiosità, di libertà, di collaborazione, di consenso, che è necessario per ogni vero apprendimento, scoperta, creazione.

Ma il nostro sistema scolastico è stato costruito con altri mattoni.

Pensiamo di vivere in una società multiculturale “avanzata”; pochi oggi parlerebbero della peccaminosità intrinseca dei bambini. Ma le nostre scuole incarnano ancora la paura della “selvatichezza” dei bambini: il timore che senza un controllo costante, una misurazione continua e la costante minaccia di punizioni, essi “si scatenino”, non imparino, diventino antisociali, facciano del male a se stessi o agli altri, diventino adulti incompetenti e indifesi.

Mini Aodla Freeman racconta che quando è arrivata a Sud dall’Artico, non riusciva a capire il modo in cui i Qallunaat, i bianchi, parlavano ai loro bambini: dicendo sempre NO, come se fossero cani.

La natura selvaggia di un orso si è evoluta, nel corso di centinaia di migliaia di anni, per portare con sé l’impulso a vagare a volontà su un territorio di centinaia di chilometri quadrati. Quando si mette un orso in gabbia, questo cammina senza sosta avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro, finché le sue zampe non sanguinano. Le zampe sanguinanti raccontano al guardiano dello zoo, se è in ascolto, una storia; una storia di ampi spazi aperti, di fiumi impetuosi che pullulano di pesci, di larve che si agitano nel terreno umido sotto le rocce, della fragranza dei mirtilli selvatici trasportata per chilometri dal vento.

Alcuni animali possono vivere in gabbia. Scoiattoli e ratti, piccioni e gabbiani si adattano e prosperano in quasi tutte le condizioni, per quanto lontane dalla loro natura originaria. I cuccioli di scoiattolo che abbiamo allattato al centro faunistico avvolgevano le loro piccole dita intorno alla siringa di plastica del latte e succhiavano con un’indomabile volontà di sopravvivenza. Ma altri animali selvatici non riescono ad adattarsi; diventano disfunzionali, traumatizzati; “non riescono a prosperare”. Le loro storie si trovano nei manuali dei guardiani degli zoo. Camminano fino a far sanguinare le zampe, rigurgitano il cibo, si strappano il pelo o si strappano le piume. Diventano aggressivi in modo anormale, spaventati in modo anormale. Oppure si ammalano e muoiono.

È emerso che alcuni dei nostri bambini sono più simili a piccioni e scoiattoli, mentre altri sono più simili a orsi. Alcuni di loro si adattano alle mura istituzionali che gli mettiamo intorno e altri camminano fino a sanguinare le zampe. Il sanguinamento di questi bambini, se li ascoltiamo, può raccontarci molte storie su di noi. Il ragazzo drogato di Adderall ci racconta una storia di foreste piene di alberi su cui arrampicarsi, di fiumi in cui nuotare e remare, di prati aperti in cui correre. La ragazza che si fa lentamente morire di fame ci racconta di una famiglia e di un clan in cui l’accettazione è un diritto di nascita piuttosto che qualcosa per cui si compete con la magrezza e i buoni voti. I ragazzi che si ribellano, che diventano ribelli fino all’autodistruzione, ci raccontano una storia di libertà dal controllo autoritario, da ricompense e punizioni meschine, da una sorveglianza e valutazione senza fine. I ragazzi che si rivolgono alle droghe ci raccontano di sensazioni di calore, di energia, di intimità, di pace che non trovano nelle loro vite di lavoro competitivo e programmato senza fine.

Per decenni il nostro modello di tossicodipendenza si è basato su ricerche condotte su ratti di laboratorio ai quali veniva fornita una leva che potevano premere per erogare acqua addizionata con eroina o cocaina. I ricercatori hanno scoperto che i ratti premevano la leva e consumavano la droga fino a quando non li uccideva, e hanno concluso che la droga stessa era la causa del comportamento di dipendenza. Ma poi uno psicologo di nome Bruce Alexander notò qualcosa. I topi che si uccidevano in questo modo erano isolati in un ambiente innaturale, un’arida scatola Skinner dove non c’era nulla di gratificante da fare se non autostimolarsi con la droga. Quando sono stati collocati in un ambiente più vario e naturale, in grado di interagire liberamente con l’ambiente e con altri ratti, il loro consumo di droga si è ridotto di oltre tre quarti. In altre parole, se si dava loro una vita che volevano vivere e un mondo in cui volevano vivere, non si distruggevano. O, come ha detto lo scrittore Johann Hari:

“Non sei tu. È la tua gabbia”.

Il nostro DNA è un testo, un vasto e intricato testo sacro, che contiene informazioni non solo su di noi, ma anche sul Kosmos per cui siamo stati creati. Tutti amiamo l’acqua limpida, tutti amiamo il cielo azzurro. Le nostre nature, le nostre selvagge nature umane, si sono evolute, come quella dell’orso, nel corso di centinaia di migliaia di anni in un’armonia intricata con l’ordine e la bellezza infinitamente dettagliata del Kosmos.

È un’argomentazione romantica da “nobile selvaggio”? Significa forse che i bambini nel loro stato “selvaggio” sono angioletti perfetti? No. Significa che, per quanto pensiamo di essere intelligenti, siamo una specie di mammiferi e, come ogni altra specie di mammifero, abbiamo una storia naturale, una natura evoluta – una natura selvaggia – che non rispettiamo a nostro rischio e pericolo.

Una fila di enormi teschi si trova fuori dall’ufficio di un guardiacaccia in Sudafrica. Sono i teschi dei rinoceronti uccisi da bande di giovani elefanti maschi che sono stati separati dalle loro madri, dalle loro nonne, dai loro zii e dalle loro zie e spediti in una riserva di caccia dove avevano come compagni solo i loro simili. Tagliati fuori dal complesso sistema sociale in cui gli elefanti si sono evoluti per insegnare ai loro giovani un comportamento adeguato alla specie, senza i controlli e gli equilibri sociali che si aspettavano, il comportamento di questi adolescenti è andato in tilt.

Oggi viviamo in una società in tilt, in parte perché ci siamo allontanati così tanto dalla natura della nostra specie e dalle strutture sociali che si sono evolute per sostenerla e tenerla sotto controllo. Le società umane, ovviamente, sono più variabili di quelle animali; c’è una varietà mozzafiato di colori, suoni e storie che vediamo nelle migliaia di culture di tutto il mondo. Ma sotto le molte differenze, ci sono profondi punti in comune che appaiono nei popoli di tutto il mondo e in tutta la storia dell’umanità, fino alle esplosive distorsioni dell’era moderna.

Nelle società indigene di tutto il mondo, in ogni continente, vediamo neonati e bambini piccoli tenuti vicini da genitori e nonni, zii, fratelli e cugini. Vediamo bambini intimamente inseriti nel mondo naturale e liberi di muoversi e usare il proprio corpo all’aperto. Vediamo bambini inseriti nelle loro comunità e liberi di osservare e partecipare al lavoro, al tempo libero e alle celebrazioni degli adulti. Vediamo strutture sociali complesse di famiglie allargate di età mista e di clan che forniscono assistenza ai bambini, insegnano il rispetto e tengono sotto controllo i comportamenti antisociali in modo molto più efficace e con meno conflitti rispetto alle istituzioni su cui oggi facciamo affidamento. Vediamo persone legate alla terra con una profondità, una ricchezza e un senso di relazione etica reciproca inimmaginabili per i moderni esseri umani urbani.

Non vediamo bambini confinati in casa per dodici anni della loro infanzia, non vediamo bambini segregati con individui della stessa età sotto le cure di estranei, non vediamo uno stato di competizione perpetua in cui i bambini sono misurati e classificati rispetto ai loro coetanei e in cui “aiutare il prossimo” equivale a “imbrogliare”. Non vediamo genitori che devono scegliere tra crescere i propri figli da soli, senza alcun sostegno, o pagare estranei che lo facciano per loro. Non vediamo giovani che si affamano, si tagliano, si uccidono.

Nessuna società umana è un’utopia; nessuna società umana eliminerà mai la sofferenza, il conflitto e il dolore. Ma le patologie gravi ed epidemiche che si sono sviluppate all’interno delle nostre istituzioni moderne – il bullismo, i disturbi alimentari, la depressione, l’ansia, l’autolesionismo compulsivo – sono distinte e identificabili come le patologie che si sviluppano negli animali dello zoo.

Anzi, sono la stessa cosa.

Come dice una vecchia barzelletta, al mondo ci sono due tipi di persone: quelle che dividono tutto in due categorie e quelle che non lo fanno.

È una buona battuta, come tutte le buone battute, perché è vera. Per gli indigeni, ovviamente, non esiste una concezione di “selvaticità” o di “natura”. Esiste solo il mondo, di cui gli esseri umani sono parte integrante.

Thoreau, nonostante i suoi molti grandi contributi – dal suo dettagliato lavoro di naturalista alla filosofia della disobbedienza civile che ha ispirato due dei più grandi movimenti di liberazione del XX secolo – rimase impantanato nei dualismi eurocentrici di “natura selvaggia” e “civiltà”. Era affascinato dall’idea di “indiano”, ma aveva difficoltà a comprendere il vero popolo Penobscot che incontrava, che non rientrava nelle categorie di “selvaggio” o “nobile selvaggio”. E rimase un po’ sconcertato dalla consapevolezza che la “natura selvaggia” minacciosa, esaltante e impressionante che incontrava nelle vaste foreste del Maine era, per i Penobscot, semplicemente la loro casa.

Questa stessa scissione psicologica, o dualismo, guida oggi la concezione euro-occidentale dei bambini e dell’apprendimento. Vediamo i nostri figli come selvaggi o come nobili selvaggi, come angeli innocenti o come piccoli demoni che ci fanno impazzire, ci privano del sonno, rovinano la nostra vita sessuale, distruggono la nostra pace nei ristoranti e sugli aerei. L’unica cosa che facciamo fatica a fare è vedere i bambini come esseri umani molto simili a noi.

Ma questo non vale per tutti, ovunque. Le stesse persone che non vedono la “natura” come qualcosa di separato da controllare, tendono a non vedere i bambini in questo modo. Non vedono una linea di demarcazione tra lavoro e gioco, tra apprendimento e vita. Vale la pena di considerare la possibilità che si tratti di qualcosa di più di una coincidenza.

I bambini, come il mondo naturale, non beneficiano dei nostri dualismi. Quando è libero di correre all’aria aperta, di muoversi, di parlare, di fare domande, di esplorare, di giocare, di lavorare, di partecipare – di essere “normale”, come dice Mini Aodla Freeman – il bambino “selvaggio” in una classe diventa un essere umano, un compagno amichevole e disponibile. Non un angelo perfetto, ma solo una normale persona intelligente e simpatica come chiunque altro.

Ma la visione dualistica è profondamente radicata nel nostro sistema educativo che, come ha sottolineato Peter Gray, divide la vita in “lavoro” (sgradevole ma importante) e “gioco” (piacevole ma privo di significato), gli esseri umani in “insegnanti” (che hanno il controllo per impartire la loro conoscenza) e “studenti” (che devono essere controllati per poterla ricevere). Ci deve essere sempre un soggetto e un oggetto, un padrone e uno schiavo. Abbiamo dimenticato come vivere e lasciar vivere.

Il teorico politico Toby Rollo ha sottolineato come l’assoggettamento forzato dei bambini da parte degli adulti costituisca il fondamento psicologico di ogni altro modello di assoggettamento politico ed economico. Non si tratta di una metafora, ma di un principio strutturante della realtà politica. Ai tempi degli imperi e del colonialismo – gli stessi in cui è stato creato il nostro moderno sistema scolastico – gli indigeni, le persone di colore, le donne di tutti i colori e i bianchi di classe inferiore erano tutti visti come bambini, bisognosi di tutela e disciplina paterna. E poiché si capiva che i bambini spesso necessitavano di “castighi” violenti – per il loro bene! — era naturale che gli adulti infantili richiedessero lo stesso.

Non inquadriamo più le persone come “civilizzate” o “selvagge”, ma come “istruite” o “non istruite”, “sviluppate” o “in via di sviluppo” (i nostri termini moderni per la stessa cosa). Ma conserviamo gli atteggiamenti paternalistici dei nostri antenati, nei confronti dei nostri figli e degli adulti “infantili” che troviamo in tutto il mondo – un paternalismo in cui la patina di benevolenza è sostenuta dalla costante minaccia della forza violenta.

Il controllo è sempre così seducente, almeno per la mente “sviluppata” (“civilizzata”). Sembra così soddisfacente, così efficiente, così efficace, così potente. Nel breve periodo, in un certo senso, lo è. Ma crea mille tipi di contraccolpi, dai bambini depressi e ribelli alle tempeste che si scatenano sulle nostre coste fino alle armi e alle bombe che esplodono nelle città di tutto il mondo.

Siamo impegnati in un vasto progetto distopico volto a potenziare il nostro creatore, a trattare il Cosmo come se fosse un riparatore superiore e a immaginare di poter riprogettare noi stessi e il mondo in cui dobbiamo vivere. Gli ingegneri sociali che hanno plasmato il nostro mondo, hanno capito molto bene che non importa quanto lontano “progredisca” la civiltà, ogni nuovo essere umano nasce selvaggio – in altre parole, umano – e si sono posti come obiettivo esplicito quello di creare un’istituzione che spezzasse la volontà personale e l’“autodeterminazione” – che domerebbe la natura selvaggia – dei nostri figli. Funziona. Ma come ogni altro intervento radicale nel mondo naturale, come le dighe, come i pesticidi, come le colture geneticamente modificate, l’istituzionalizzazione di massa dei bambini altera le nostre vite e il nostro pianeta in modi che sono imprevisti e fuori dal nostro controllo.

Le specie muoiono, il nostro pianeta si riscalda e, nel nome dell’insegnamento ai nostri figli a salvare il mondo, continuiamo a distruggere la loro natura selvaggia, “socializzandoli” lontano dalla natura e dentro la gabbia che abbiamo costruito attorno all’infanzia. I nostri simpatici insegnanti cercano di trovare modi per renderlo “divertente”, per limitare o almeno attenuare il danno che viene fatto; come i guardiani dello zoo che regalano palloni da spiaggia agli orsi polari in cattività, cercano di trovare sostituti per ciò che è andato perduto. Ma il mondo è troppo bello per sostituirlo, e i più selvaggi dei nostri figli – quelli che devono prendere il Ritalin, quelli a cui devono dare il Prozac – lo sanno. Questi bambini sono i canarini nella miniera di carbone, quelli che non obbediranno ai nostri padroni, che non prenderanno il loro posto come ingranaggi nella macchina che sta distruggendo la terra. Non sono loro ad avere un “disturbo”. Sono loro che custodiscono ancora il Cosmo perfetto nei loro cuori.

La rivoluzione non avverrà in una classe.

Nella natura selvaggia c’è la preservazione del mondo.

Note:

  • Un’organizzazione 501(c)(3) è una società, un trust, un’associazione senza personalità giuridica o altro tipo di organizzazione statunitense esente dall’imposta federale sul reddito ai sensi della sezione 501(c)(3) del Titolo 26 del Codice degli Stati Uniti. È uno dei 29 tipi di organizzazioni senza scopo di lucro 501 (c) negli Stati Uniti.

Pubblicato da Stefano

Chi sono? Domanda troppo difficile a cui rispondere. Per farla il più semplice possibile mi chiamo Stefano, sono una creatura selvatica di 28 anni e da che ho ricordo amo stare all'aperto, a contatto con l'ambiente naturale e soprattutto camminare nei boschi e in montagna. Il grande gioco della vita mi ha portato sui sentieri dell'educazione in natura e della pedagogia del bosco, ambito in cui sono attualmente in formazione. Prima di questo ho fatto tante cose, alcune più interessanti di altre e ho seguito quasi sempre i miei interessi, le mie passioni e la mia motivazione intrinseca, dall'antropologia alla controcultura punk per citare due degli ambiti che mi hanno formato come individuo negli ultimi dieci anni della mia vita, sempre accompagnato da una profonda tensione anarchica, una spontanea coscienza ecologista, una radicale critica alla civilizzazione e la curiosità verso tutte le forme in cui si incarna e manifesta la selvatichezza e il non-addomesticamento dell'essere umano, degli animali e della natura.