È uscito il numero 58 di Nunatak, rivista di storie, culture e lotte della montagna!

È uscito il numero 58 di Nunatak, rivista di storie, culture e lotte della montagna!

È uscito recentemente il nuovo numero di Nunatak, rivista di storie, culture e lotte della montagna. Nunatak, per chi non dovesse conoscerla, è una rivista pluridecennale autoprodotta e stampata in proprio presso la Biblioteca Popolare Rebeldies di Cuneo ed è una pubblicazione trimestrale, quindi un numero per stagione. “Nunatak” è un termine originario della lingua dei popoli nativi dell’artico usato per identificare le formazioni rocciose che spuntano dai ghiacci della Groenlandia e di tutta la regione artica. Citando direttamente la redazione della rivista <<dinanzi al dilagare degli scempi sociali ed ecologici prodotti dalla società della Merce e dell’Autorità, le montagne della Terra tornano ad essere lo spazio della resistenza e della libertà. Affinchè una vita meno alienata e meno contaminata possa, giorno dopo giorno, scendere sempre più a valle>>.

Arrivati a questo punto forse vi starete chiedendo il perchè di questo articolo su Nunatak e la risposa è molto semplice. Mesi fa girai ai/alle compagni/e della redazione di questa rivista, che leggo ormai da tantissimi anni, un mio articolo, già apparso su questo blog in una veste differente, intitolato “Forme dell’abitare come armi coloniali. Il caso degli Inuit (in Canada e Groenlandia)”.

Forme dell’abitare e alcool come armi coloniali. Il caso degli Inuit e dei Sami.

Con mia estrema gioia, mista a sorpresa e soddisfazione, la redazione di Nunatak decise di pubblicarlo sul numero 58 dell’Autunno 2020, numero che finalmente ho tra le mani e posso sfogliare. Il numero 58 è ricco di articoli che trattano tematiche differenti, con argomenti che spaziano dalle tecniche e conoscenze per la lavorazione del legno seguendo i cicli lunari ed astrali a temi di attualità come il conflitto armeno-azero nel Caucaso. L’articolo che però ritengo più interessante e attuale, soprattutto in questi giorni in cui è avvenuta la prima scalata invernale al K2 della storia, è sicuramente “La montagna? Una cosa troppo seria per lasciarla agli alpinisti”, analisi critica dell’alpinismo occidentale come strumento e/o retaggio coloniale, con tutta la sua retorica e le sue narrazioni infarcite di termini quali “conquista” e “spedizioni”, sottolineando i rapporti estremamente asimmetrici dei ricchi alpinisti occidentali con le popolazioni locali e l’impatto ecologico-ambientale di un’attività turistica ormai di massa. Fatto questo  riassunto-introduzione per stuzzicare il vostro interesse nei confronti di Nunatak, vi lascio all’interessante editoriale che accompagna il numero 58 fresco di stampa e pubblicazione. Buona lettura!

“Non siamo scrittori. Non siamo alpinisti. Non siamo agricoltori o consumatori. Non siamo ecologisti, amministratori, attivisti politici. Non dedichiamo il tempo libero, di lavoro o del dopo-lavoro al cambiamento, all’alternativa, alla rivoluzione di domani.

Minuto per minuto cerchiamo il senso complessivo di ciò che siamo, di ciò che facciamo, di ciò che desideriamo. Il tempo è ora, non ce n’è un altro.  L’organizzazione sociale cui siamo sottoposti crea delle necessità a cui è difficile sottrarsi. Siamo utilizzatori più o meno passivi di energia, carburanti, tecnologie, armi, risorse. Siamo dipendenti, anche concettualmente, da ciò che ci avvelena.  Per essere disposti ad abbattere ciò che ci nutre ma contemporaneamente ci uccide, dobbiamo essere in grado di desiderare altro. Dobbiamo dare corpo a questo desiderio perchè solo così sapremo per cosa lottiamo e sapremo cercarlo, ricostruirlo fronte agli stravolgimenti in corso. 

Che la vita nelle metropoli fosse insostenibile lo abbiamo sempre detto. Ora lo hanno visto tutti, con l’esodo dei poveri verso i villaggi e con quello dei benestanti verso le villette con giardino. Fronte al più elementare dei bisogni dell’umanità, non morire di fame e malattia, la civiltà metropolitana non si è dimostrata molto più attrezzata delle precedenti. Questa civiltà sta crollando. Non sappiamo quanto durerà questa agonia, quel che è certo è che la sua caduta non sarà indolore. La violenza e la brutalità che dilagano, sono il prezzo per assicurare i privilegi di una minoranza sempre più risicata. E la sottomissione di tutti gli altri. Ci siamo dentro, che ci piaccia o no. Si tratta di scegliere da che parte stare e di capire come starci.

Durante il precedente confinamento coatto, anche nell’occidente ricco molti si sono chiesti se valesse ancora la pena pagare il prezzo per l’accesso ai benefici forniti dal sistema, se questo non fosse troppo alto, soprattutto nelle città. Molti l’hanno ammesso candidamente: che bello stare in casa, invece che ammazzarsi per portare a casa uno stipendio. Ma stare a casa è un lusso che non tutti possono permettersi, e ora, in questo secondo confinamento in cui l’unica libertà rimasta è quella di rischiare di morire per andare a lavorare, qualcuno ha compreso che il gioco non vale più la candela, e ha preferito prendersi le cose dove sono, nelle vetrine del centro città. La maschera di un sistema dove dicono basti lavorare per avere accesso ai beni, è caduta. E se certo non sarà una borsa di Gucci espropriata che ci cambierà la vita, la fine dell’adesione ideologica al sistema e alle sue regole, questo si che è un bel passo avanti. Ora, verrebbe da dire, bisognerebbe solo capire quali “beni” sono bene e quali no.

Per quanto ci riguarda, il confinamento precedente ha confermato tanto l’importanza di avere alimenti, quanto la necessità primaria di poter continuare tutte le attività sociali, ludiche, culturali, di lotta, che nella nostra giornata si mischiano inevitabilmente e diventano tempo e forma di vita. Il confinamento ha rafforzato le comunità in cui viviamo, permettendoci di dedicare loro più tempo.

Non possiamo relegare al tempo libero o al dopo-lavoro la creazione di basi di resistenza a questo sistema. Non c’è liberazione possibile nella dipendenza, nè tanto meno libertà. Non c’è autonomia di pensiero, di azione, di parola se non c’è autonomia materiale. Non riusciremo neanche a concepire contro cosa e in che modo dovremo batterci, privi di tale autonomia.

Casa, cibo, salute, relazioni… tali sono le più significative armi di ricatto e di compravendita cui siamo sottoposti. Tentate un’emancipazione in tal senso è anche immaginare cosa significhi materialmente il mondo che cerchiamo, è una millimetrica ma importante sottrazione di risorse e competenze all’esproprio che subiamo. Senza creare nicchie, isole felici o collettivi politici senza anima. Riunendo tempo di lavoro, di vita e di lotta. Perchè questo sia tempo di vita vissuto e non sottratto a quello che vogliamo essere. Altrimenti non potremo creare nulla di diverso dal conosciuto.”

Per chi volesse leggersi tutti i numeri pubblicati fino ad oggi, gli arretrati di Nunatak sono disponibili in formato pdf su https://nunatak.noblogs.org/.

Pubblicato da Stefano

Chi sono? Domanda troppo difficile a cui rispondere. Per farla il più semplice possibile mi chiamo Stefano, sono una creatura selvatica di 28 anni e da che ho ricordo amo stare all'aperto, a contatto con l'ambiente naturale e soprattutto camminare nei boschi e in montagna. Il grande gioco della vita mi ha portato sui sentieri dell'educazione in natura e della pedagogia del bosco, ambito in cui sono attualmente in formazione. Prima di questo ho fatto tante cose, alcune più interessanti di altre e ho seguito quasi sempre i miei interessi, le mie passioni e la mia motivazione intrinseca, dall'antropologia alla controcultura punk per citare due degli ambiti che mi hanno formato come individuo negli ultimi dieci anni della mia vita, sempre accompagnato da una profonda tensione anarchica, una spontanea coscienza ecologista, una radicale critica alla civilizzazione e la curiosità verso tutte le forme in cui si incarna e manifesta la selvatichezza e il non-addomesticamento dell'essere umano, degli animali e della natura.