Il mito di una Wilderness senza esseri umani (di Mark Dowie)

Il mito di una Wilderness senza esseri umani (di Mark Dowie)
Ho deciso di tradurre un articolo di Mark Dowie il cui titolo originale è “The Myth of a Wilderness Without Humans” perché da sempre il tema della natura selvaggia e della cosiddetta wilderness come categoria antropologica è centrale nei miei interessi e letture, nonchè per l’attualità della relazione problematica e conflittuale tra conservazione ambientale e rispetto dei diritti dei popoli indigeni. Mark Dowie è noto per aver scritto un importante opera sul conflitto tra la conservazione della natura e i popoli indigeni intitolato ““Conservation Refugees: The Hundred-Year Conflict Between Global Conservation and Native Peoples“, un’opera che torna di forte attualità in questi ultimi tempi in cui si è iniziato a parlare in maniera sempre più strutturata e decisa di decolonizzare la conservazione ambientale (basti pensare a “Our Land, Our Future“, primo congresso al mondo sul tema, tenuto da Survival International, Rainforest Foundation e altri).
L’idea di una wilderness primitiva, pura, intaccata dalla presenza umana è sostanzialmente un mito, una visione idealizzata costruita, principalmente in terra statunitense, in maniera cosciente al fine di guidare una certa agenda volta alla conversazione della natura in senso colonialista, che ha come conseguenza diretta il danneggiamento di stili di vita nativi e il non rispetto dei diritti dei popoli indigeni sulle loro terre ancestrali. Sono inoltre convinto che si debba fortemente invertire la rotta e cominciare a pensare all’essere umano come parte di questa presunta wilderness, soprattutto in un’epoca in cui al centro dell’agenda delle varie discipline sociali e non, troviamo i grandi discorsi sull’ antropocene e l’impatto dell’agire umano sul mondo naturale.
Forse non dobbiamo salvaguardare la natura in quanto idea astratta né conservarla nella sua romantica idealizzazione del selvaggio senza l’essere umano, ma riconoscere che il problema non è l’uomo in sé bensì il sistema economico capitalista che nella sua corsa famelica al profitto ha portato all’attuale situazione di distruzione climatica e devastazione ambientale, quindi non parlare più di antropocene e iniziare al contrario ad utilizzare il termine, a parer mio più adatto, capitalocene. Inoltre visto che l’idea e la pratica della conservazione ambientale attuali sono un prodotto che affonda le radici in una tradizione occidentale e colonialista, bisogna cambiare totalmente approccio e prospettiva; non solo parlare di natura selvaggia quindi, ma anche e soprattutto porre l’attenzione sull’importanza di ricercare fuori dalla nostra visione etnocentrica del mondo, modi di vivere altri in maniera ecosostenibile e sulle modalità con cui le culture indigene affrontano il cambiamento climatico, mettendo in atto un profondo e fortemente attuale processo di decolonizzazione della conservazione ambientale. Perchè come sosteneva Jack Turner, “il concetto di natura selvaggia non è determinato dall’assenza di esseri umani, ma dalla relazione tra persone e ambiente”.

One way to guarantee a conversation without a conclusion is to ask a group of people what nature is.
—Rebecca Solnit

Durante il processo di “conservazione dei beni comuni per tutti i popoli”, una missione frequentemente dichiarata dai parchi nazionali e dalle aree protette, una classe o cultura di persone, una filosofia della natura, una visione del mondo e un mito della creazione sono stati quasi sempre preferiti a tutti gli altri. Queste idee e convinzioni privilegiate vengono a un certo punto espresse nell’arte. Ed è attraverso l’arte che si formano i nostri primi preconcetti e le nostre prime fantasie sulla natura.

Insieme ai loro amici che cercavano di preservare una versione idealizzata della natura, la chiamarono “wilderness”, un luogo che l’uomo aveva esplorato ma mai alterato, esaltato ma mai toccato. Era l’inizio di un mito, una finzione che si sarebbe gradualmente diffusa in tutto il mondo e che per un secolo o più avrebbe guidato l’agenda della conservazione dell’umanità.

La leggenda dello Yosemite, ad esempio, è stata in gran parte creata da fotografi come Charles Leander Weed, Carleton Watkins, Ansel Adams ed Edward Weston, le cui magnifiche immagini del luogo sono completamente prive di umanità o di qualsiasi segno della sua presenza. Qui, dicevano (e lo sapevano bene), c’è un paesaggio incontaminato, vergine e incontaminato, senza un’impronta di scarpe, senza una capanna o un teepee in vista. Qui, in questo luogo selvaggio, si può cercare e trovare la pace completa.

Lo sapevano bene, i ritrattisti della natura selvaggia; infatti, Adams evitò assiduamente di fotografare i Miwok locali, che raramente perdeva di vista mentre lavorava nella Yosemite Valley. Riempì migliaia di negativi privi di esseri umani con la terra che sapeva essere stata custodita dai Miwok per almeno quattromila anni. E sapeva che i Miwok erano stati espulsi con la forza dalla Yosemite Valley, come altri nativi sarebbero stati espulsi dai parchi nazionali ancora da creare, nel presunto interesse di proteggere la natura dal disturbo umano.

Si può essere abbastanza certi che Weed, Watkins, Adams e Weston abbiano tutti letto, a un certo punto della loro vita, il classico di George Perkins Marsh del 1864 “L’uomo e la natura” e ricordino che Marsh sosteneva con passione il principio della conservazione della natura selvaggia e vergine, che secondo lui era giustificata tanto da ragioni artistiche quanto da altre. Marsh riteneva inoltre che la distruzione del mondo naturale minacciasse l’esistenza stessa dell’umanità. Sappiamo che Muir leggeva Marsh e anche Teddy Roosevelt. Entrambi lo affermano nei loro diari e nelle loro memorie. Quindi, quando si parlò di un parco nello Yosemite, Muir e Roosevelt erano, per così dire, sulla stessa lunghezza d’onda.

Duello tra scienze

Natural science is just one way of understanding nature.
—Bill Adams, Cambridge University

Il modello di conservazione dello Yosemite, che si esprime ancora oggi in maniera abbastanza coerente, ha scatenato un conflitto internazionale tra due importanti discipline scientifiche: l’antropologia e la biologia della conservazione. Queste due grandi scienze sono tuttora in disaccordo sul modo migliore di conservare e proteggere la diversità biologica e culturale e, cosa forse ancora più complessa, sul modo migliore di definire due dei termini più ambigui dal punto di vista semantico in entrambi i campi: natura e wilderness.

Gli antropologi culturali trascorrono anni a vivere in quella che molti di noi chiamerebbero “natura selvaggia”, studiando le lingue, i costumi e le tradizioni di quelli che molti di noi chiamerebbero “popoli primitivi”. Alla fine gli antropologi arrivano a comprendere le complesse culture native che permettono alle comunità più remote di prosperare senza bisogno di importare molto dall’esterno del proprio territorio.

“Non chiediamo se i popoli indigeni sono alleati della conservazione o che tipo di natura proteggono”, scrivono Paige West e Dan Brockington, due antropologi che hanno trascorso la maggior parte della loro carriera a fare ricerca sull’impatto che hanno le aree protette sulle culture indigene; “invece attiriamo l’attenzione sui modi in cui le aree protette diventano strumentali nel dare forma alle battaglie sull’identità, la residenza e l’uso delle risorse”. La loro esperienza li ha convinti che il modo migliore per proteggere un fiorente ecosistema naturale è quello di lasciare quelle comunità praticamente da sole, dove e come sono, facendo quello che hanno fatto così bene per tante generazioni – coltivare un paesaggio sano, o quello che gli esperti di sviluppo chiamerebbero “vivere in modo sostenibile”


Anche i biologi della fauna selvatica trascorrono gran parte della loro carriera in ambienti naturali remoti, ma tendono a preferire paesaggi privi di cacciatori, raccoglitori, nomadi pastorali o agricoltori. Trovano gli antropologi un po’ “romantici” riguardo alle culture indigene, in particolare le tribù che sono state parzialmente assimilate e modernizzate; il che generalmente significa che le tribù sono in possesso di tecnologie dannose per l’ambiente come fucili da caccia, motoseghe e veicoli a motore, comodità che i naturalisti occidentali sanno per esperienza della loro civiltà possono distruggere gli ecosistemi sani.

Queste due discipline sono anche in disaccordo su ciò che intendono per natura e sul grado in cui l’umanità è da considerare parte di essa. E hanno un senso diverso dell’idea di selvatichezza e della natura selvaggia. È a questo proposito che è più probabile sentire gli antropologi chiamare i naturalisti “romantici”. Ascoltando questo scambio di “insulti” si potrebbe concludere che si sta semplicemente assistendo ad uno scontro di tendenze romantiche.  

William Cronon, storico dell’ambiente all’Università del Wisconsin, ha trascorso gran parte della sua carriera intellettuale alle prese con questi conflitti. Il suo pensiero sull’argomento si è riunito nel 1995 con la pubblicazione di un saggio molto letto e controverso intitolato “The Trouble with Wilderness, Getting Back to the Wrong Nature”.

“È giunto il momento di ripensare la natura selvaggia”, esordisce Cronon nel suo saggio. Continua a sfidare la nozione ampiamente diffusa e decisamente romantica degli ambientalisti secondo cui “la natura selvaggia è l’ultimo posto rimasto dove la civiltà, quella malattia troppo umana, non ha completamente infettato la terra”. Questo concetto, secondo Cronon, dà credito “all’illusione che possiamo in qualche modo cancellare la lavagna del nostro passato e tornare alla tabula rasa che presumibilmente esisteva prima che cominciassimo a lasciare le nostre tracce sul mondo”. Questa finzione, che Cronon crede sia basata su una profonda incomprensione della natura e del nostro posto in essa, crea una forza che si pone come antagonista della conservazione ambientale. “Il mito della wilderness”, scrive, “è che possiamo in qualche modo lasciare la natura intatta al nostro passaggio”. Continua a sfidare l’abustao e spesso frainteso principio di Henry David Thoreau secondo il quale “nella natura selvaggia risiede la conservazione del mondo”

Cronon conclude: “Più si conosce la sua storia peculiare, più ci si rende conto che la natura selvaggia non è proprio quello che sembra. Lungi dall’essere un luogo sulla terra che si distacca dall’umanità, è una creazione umana molto profonda, anzi, la creazione di culture umane molto particolari in momenti specifici della storia umana. Non è un santuario immacolato dove l’ultimo residuo di una natura incontaminata, in pericolo, ma ancora trascendente, può essere incontrato almeno per un po’ di tempo senza essere contaminato dalla civiltà. È invece un prodotto di quella civiltà”.

Questa è una dichiarazione di guerra per una “civiltà” che ha messo da parte milioni di chilometri quadrati di terra preziosa in quanto “wilderness”, ha approvato una legge nazionale – il Wilderness Act del 1964 – per definire e proteggere la natura selvaggia e sostiene ancora una dozzina di organizzazioni nazionali benestanti che fanno pressione per ottenere ulteriori riserve di natura selvaggia e convincono l’opinione pubblica che recintare figurativamente grandi distese di terra non occupata è l’unico modo per preservare la natura e la diversità biologica. Ma quanto è naturale la wilderness? Per Cronon, non è così naturale come sembra.

“L’idea di wilderness nasconde la sua innaturalità dietro una maschera che è tanto più affascinante quanto più sembra naturale”, afferma. Glorificando i paesaggi incontaminati, che esistono solo nell’immaginazione dei romantici, i conservazionisti occidentali distolgono l’attenzione dai luoghi in cui vivono le persone e dalle scelte che compiono ogni giorno e che danneggiano realmente il mondo naturale di cui fanno parte.

Così, l’allontanamento degli esseri umani aborigeni dalla loro terra per creare una natura selvaggia mercificata è una messinscena deliberata, una narrazione neodemocratica culturalmente costruita per incantare gli abitanti delle città, stanchi e desiderosi della frontiera aperta che i loro antenati hanno “scoperto” e poi addomesticato, un luogo dove assorbire i suoni e le immagini della natura vergine e dimenticare per un attimo la vita completamente innaturale che conducono.

Quindi cos’è selvaggio?

What counts as wilderness is not determined by the absence of people, but by the relationship between people and place.
—Jack Turner, philosopher

In diverse occasioni, durante la mia ricerca, un’intervista si è interrotta dopo che ho inserito la parola wild o wilderness in una domanda. La parola semplicemente non esisteva nel dialetto della persona che stavo intervistando. Il mio interprete mi fissava e aspettava una domanda migliore.

Quando ho cercato di spiegare cosa intendevo per “selvaggio” a Bertha Petiquan, una donna Ojibway del Canada settentrionale la cui figlia faceva da interprete, è scoppiata a ridere e mi ha detto che l’unico posto in cui aveva visto ciò che lei pensava che io descrivessi come selvaggio era un angolo di strada fuori dalla stazione degli autobus a Winnipeg, Manitoba.

In Alaska, Patricia Cochran, una scienziata nativa Yupik, mi ha detto: “Non abbiamo una parola per definire la “natura selvaggia”. Quello che voi chiamate ‘natura selvaggia’ noi lo chiamiamo il nostro cortile. Per noi, nessuna parte dell’Alaska è una natura selvaggia, secondo la definizione del Wilderness Act del 1964: un luogo senza persone. Siamo profondamente offesi da questo concetto, così come dall’intera idea di “designazione della natura selvaggia” che troppo spesso esclude i nativi dell’Alaska dalle terre ancestrali”. Gli Yupik non hanno nemmeno una parola per definire la biodiversità. La parola più vicina è cibo. E la parola O’odham (Pima) per “wilderness” è etimologicamente legata ai loro termini per “salute”, “completezza” e “vivacità”.

Jakob Malas, un cacciatore Khomani di una zona del Kalahari che ora è il Parco Nazionale Gemsbok, condivide la prospettiva di Cochran sulla natura selvaggia. “Il Kalahari è come un grande cortile”, dice, “per noi non è una natura selvaggia. Conosciamo ogni pianta, animale e insetto e sappiamo come usarli. Nessun altro potrebbe mai conoscere e amare questa fattoria come noi”.

“Non ho mai pensato alla Stein Valley come a una zona selvaggia”, osserva Ruby Dunstan, una Nl’aka’pamux di Alberta. Mio padre diceva sempre: “È la nostra dispensa”. Poi alcuni ambientalisti l’hanno dichiarata una zona selvaggia e hanno detto che nessuno poteva entrarci perché era molto delicata. Così hanno messo una recinzione intorno, o forse intorno a loro stessi”.

Anche i Tarahumara del Messico non hanno una parola o un concetto per indicare la natura selvaggia. Alla terra viene concesso lo stesso amore e affetto della famiglia. L’etnoecologo Enrique Salmon, anch’egli Tarahumara, la chiama “ecologia parentale”. “Siamo immersi in un ambiente in cui siamo alla pari con il resto del mondo”, dice. “Sono tutte relazioni affini: gli alberi, le rocce, gli insetti e ogni cosa è in posizione di parità con il resto”.

Quando la selvaticità (wildness) viene confusa con la natura selvaggia (wilderness), e la natura selvaggia con la natura, e la natura viene vista come qualcosa di separato e non influenzato dall’attività umana, forse è il momento di analizzare le situazioni reali e confrontarle con la retorica della conservazione moderna. Il bestiame Maasai fa parte della natura? Forse oggi no, ma quando vagavano a migliaia nei pascoli aperti, accuditi da pochi pastori umani il cui interesse primario era quello di mantenere il patrimonio biotico sano per il loro bestiame e per gli altri animali selvatici, si potrebbe dire che erano “selvatici”, certamente quanto lo springbok, l’eland, l’elefante e il bufalo che ogni giorno lasciano i pascoli aperti per devastare le fattorie Masai in cerca di cibo.

E chi è natura?

We forget the reciprocity between the wild in nature and the wild in us.
—Jack Turner, philosopher

In una delle tante conversazioni sulla natura a cui ho partecipato negli ultimi tre anni, ho detto a un uomo – colto, erudito e generoso sostenitore della conservazione internazionale, la cui visione della natura differiva notevolmente dalla mia – “Tu sei la natura”. Mi ha guardato e ha riso nervosamente. Non l’avevo insultato, mi assicurò. Solo non apprezzava l’idea di essere parte o prodotto di un sistema che creava anche “lumache, kudzo, muli, terremoti, orsi grizzly, virus, incendi selvaggi e querce velenose”. Si scoprì inoltre che sua sorella minore, anni prima, era stata gravemente sbranata da un leone di montagna.

Ebbene, come si fa a convincere una persona con un’esperienza del genere che è affine al leone? Forse non si può, pensai, ma lui sembrava interessato a continuare la conversazione. Altri si sono aggiunti, e alla fine della serata ha accettato se stesso come un uguale nella stessa creazione con il leone che ha sbranato sua sorella, una creazione che era disposto a chiamare “natura”, una creazione dalla quale non era separato, ma una parte.

Quando si ritiene che l’umanità sia qualcosa di separato dalla natura, diventa più facile considerare i paesaggi nel loro “stato naturale” come paesaggi privi di presenza umana e aspirare a preservare la natura selvaggia incoraggiando l’esistenza e la sopravvivenza nel paesaggio del maggior numero possibile di specie, meno una: l’uomo.

Il prezioso contributo dell’antropologia alla conservazione ambientale è forse descritto nel modo migliore da Paige West e Dan Brockington, che consigliano ai conservazionisti di essere più consapevoli dei “modi di vedere degli abitanti locali” e che la pratica della conservazione avrà più successo “se gli addetti ai lavori impareranno gli idiomi locali per comprendere l’ambiente circostante prima di iniziare a pensare alle cose in termini di natura e cultura”. È necessario, dicono, che i responsabili della conservazione “comprendano i modi complicati in cui le persone interagiscono con ciò da cui dipendono per il cibo, il riparo e le necessità spirituali, sociali ed economiche”.

Enrique Salmon ritiene che “il linguaggio e il pensiero lavorino insieme. Così, quando la lingua di un popolo include una parola come “natura selvaggia”, questo plasma i suoi pensieri in merito al suo rapporto con il mondo naturale. La nozione di natura selvaggia porta con sé l’idea che l’uomo sia un male per l’ambiente”.

Certamente chi considera la foresta come la sua “dispensa” vedrà la flora, la fauna, il suolo e l’acqua in una luce un po’ diversa rispetto al turista, al biologo, al minatore o al taglialegna. Ma non esiste qualcosa che possa essere visto da tutti loro, un terreno comune sul quale il valore intrinseco della foresta possa essere considerato e condiviso?

Un esempio di lingua locale estremamente diversa che i naturalisti occidentali hanno difficoltà a comprendere è quella dei Gimi, una delle centinaia di culture remote dell’età della pietra della Papua Nuova Guinea centrale. I Gimi “non hanno una nozione di natura o di cultura”, affermano West e Brockington. “Vedono se stessi in una serie di scambi continui con i loro antenati [che credono animino e risiedano nelle loro foreste, infondendo vita agli animali, alle piante, ai fiumi e alla terra stessa. Quando le persone muoiono, i loro spiriti tornano nella foresta e si riversano nelle piante, negli animali e nei fiumi. Quando i vivi utilizzano queste risorse naturali, non lo vedono come un impoverimento, ma piuttosto come uno scambio continuo” di energia e spirito.

Quando i Gimi uccidono e mangiano un animale “capiscono che è generato dalla forza vitale dei loro antenati e che lavorerà per creare la loro forza vitale durante questa vita. Quando moriranno, quella forza tornerà nella foresta per ricostituirla”. Si tratta di una cosmologia indubbiamente difficile da contemplare o accettare per la mente occidentale. Ma il fatto che ogni atomo di ogni essere vivente esista dall’inizio dei tempi dà una certa base scientifica alla convinzione dei Gimi che lo spirito sia semplicemente forza e materia riorganizzate. Detto questo, la loro concezione “del rapporto tra l’uomo e l’ambiente circostante [rimane] estremamente difficile da conciliare con le argomentazioni sul declino e la perdita della diversità biologica”.

Tuttavia, se gli ambientalisti occidentali della Papua Nuova Guinea centrale sapessero che i Gimi credono che tutta la materia sia qui per l’eternità e che cambi semplicemente forma nel tempo, sarebbero meglio attrezzati per lavorare con le comunità locali alla conservazione della biodiversità. Ma se respingono questa cosmologia considerandola un animismo primitivo e cercano di imporre la scienza e la religione occidentali al popolo Gimi, la loro azione di conservazione quasi certamente fallirà.

Naturalmente, gli unici giudici di questo conflitto scientifico dovrebbero essere le stesse popolazioni indigene, proprio quelle che secondo i primi sostenitori del Parco di Yellowstone non avevano alcun interesse per la natura selvaggia o per l’area del parco. Si diceva che avessero paura dei geyser e delle fumarole (non è vero, ci cucinavano sopra). La verità è che molto di ciò che noi altri sappiamo sulla natura e che abbiamo incorporato nelle varie scienze che usiamo per proteggerla – ecologia, zoologia, botanica, etnobotanica – lo abbiamo imparato proprio dalle persone che abbiamo espulso dalle aree che abbiamo cercato di proteggere.

Pubblicato da Stefano

Chi sono? Domanda troppo difficile a cui rispondere. Per farla il più semplice possibile mi chiamo Stefano, sono una creatura selvatica di 28 anni e da che ho ricordo amo stare all'aperto, a contatto con l'ambiente naturale e soprattutto camminare nei boschi e in montagna. Il grande gioco della vita mi ha portato sui sentieri dell'educazione in natura e della pedagogia del bosco, ambito in cui sono attualmente in formazione. Prima di questo ho fatto tante cose, alcune più interessanti di altre e ho seguito quasi sempre i miei interessi, le mie passioni e la mia motivazione intrinseca, dall'antropologia alla controcultura punk per citare due degli ambiti che mi hanno formato come individuo negli ultimi dieci anni della mia vita, sempre accompagnato da una profonda tensione anarchica, una spontanea coscienza ecologista, una radicale critica alla civilizzazione e la curiosità verso tutte le forme in cui si incarna e manifesta la selvatichezza e il non-addomesticamento dell'essere umano, degli animali e della natura.

Una risposta a “Il mito di una Wilderness senza esseri umani (di Mark Dowie)”

  1. Un articolo super interessante. Un bel punto di vista dal quale guardare e ragionare su cosa sia “naturale”.

    Grazie!

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