L’infanzia, l’immaginazione e la foresta

L’infanzia, l’immaginazione e la foresta
La prima volta che mi sono imbattuto in questo articolo, è stata grazie alla lettura di un opuscolo stampato e pubblicato da Hirundo intitolato semplicemente Tre Articoli da Black Seed. Il titolo originale del testo in questione è “Childhood, Imagination, the Forest”, scritto e firmato da Sever per il terzo numero di Black Seed, a green anarchist journal nel 2015, una delle esperienze più rilevanti all’interno del movimento green anarchy e che ha ispirato diverse riflessioni e approfondimenti in merito a tematiche legate all’ecologismo radicale, alla critica della civilizzazione e al primitivismo anarchico. Ancora oggi trovo interessanti le riflessioni, le idee e gli spunti che emergono in questo articolo, specialmente l’importanza dell’immaginazione come strumento di critica radicale, per ripensare in maniera diversa alle idee di natura selvaggia, selvatichezza, critica al progresso, rewilding e tanto altro. Perché se prendiamo per vera la teoria della mente paesaggistica (alla base di tante riflessioni dell’antropologo-geografo Matteo Meschiari), il paesaggio (sia esso interpretato come natura selvaggia o semplicemente come “fuori”) rappresenta una modalità del pensiero e dell’immaginazione, funzionando come metodo per affrontare i problemi complessi posti dalla modernità. Il paesaggio (o la natura selvaggia) non è solamente un metodo, ma anzitutto un modo di vedere, pensare ed immaginare le cose e di conseguenza una possibilità concreta per esplorare modelli nuovi e organizzarsi. Pubblico questo articolo quindi sperando possa farvi nascere, come ha fatto in me, dubbi, pensieri o critiche e per continuare a porci sui margini senza certezze rispetto ai temi sopra citati. 

La natura selvaggia è dappertutto, e si oppone incessantemente. L’unica cosa di cui ha bisogno sono le crepe.

Un’estate, quando avevo circa tredici anni, decisi di vivere per una settimana nella foresta vicino a casa mia. Mi ero documentato sulle piante commestibili, ma fin da subito ho iniziato a saccheggiare l’orto di mio padre. Col senno di poi, suppongo che il mio esperimento di rewilding sia stato un perfetto successo, dal momento che saccheggiare il giardino era esattamente ciò che facevano i cervi e le marmotte.

Ho trascorso gran parte della mia infanzia in quella foresta. L’ho vista presa d’assalto dal progresso. La mia famiglia è stata tra le prime schiere di profanatori. Ogni anno un nuovo appezzamento di fattoria, frutteto o bosco veniva trasformato in case brutte e mal costruite. Il terreno stesso veniva raccolto dai bulldozer e modellato per adattarsi all’aspetto che i promotori della lottizzazione volevano ottenere.

Ho notato l’effetto sul torrente in cui ho sempre giocato, guadando chilometri a monte in estate, camminando pericolosamente su una lastra di ghiaccio crepata in inverno, attraversando tronchi che cadevano, catturando gamberi di fiume, inseguendo i cervi che non avevano più lupi che li rincorrevano. Più i boschi venivano sostituiti da lottizzazioni, più le inondazioni si aggravavano, gonfiando il torrente, marrone e inghiottito, spazzando via i suoi argini anno dopo anno. Un’isola che un tempo potevo raggiungere con un balzo non c’è più, gli antichi pioppi che svettavano in alto sono stati scalzati e abbattuti, la sponda rocciosa dove ho lasciato andare il mio serpente giarrettiera quando ho capito che non era felice è stata insabbiata. Un vecchio ponte ferroviario dove anni dopo seppi che avevano giustiziato un predicatore abolizionista e che un miliziano nero era stato ferito ed era fuggito, venne spazzato via.

La mia foresta, però, per la maggior parte, era rimasta, protetta da una legge o da un’altra. Nella maggior parte dei tratti si trattava di una lunga striscia, sufficientemente ampia da permettermi di ignorare le case su entrambi i lati, passando da una scogliera a una palude a una collina di pini senza mai arrivare in vista di ciò che riconoscevo come civiltà. E la sua lunghezza… Non sono mai arrivato alla fine. In alcune escursioni estive andavo avanti per ore, magari a passo di lumaca, fino a raggiungere una radura in cui immaginavo che gli esseri umani non avessero mai messo piede prima. Solo più tardi avrei imparato a distinguere le foreste di prima o seconda generazione da quelle di vecchia crescita. Nel frattempo, sarei rimasto perplesso nello scoprire un filo spinato arrugginito o un vecchio rottame in mezzo a quella che ero sicuro fosse una foresta incontaminata.

La natura selvaggia è spesso descritta come incontaminata. Un elemento del mito dell’incontaminato è l’immutabilità. Nei libri, i rigorosi intellettuali ricordano che la natura è sempre in cambiamento, che anche quando trova la stabilità si trasforma ciclicamente. Scrivono la stessa cosa sulle società acefale che non sono propriamente “storiche” nel senso marxista del termine. Avevo letto questi testi e li avevo capiti, ma l’idea era priva di significato, o perlomeno non concretizzata, finché non ho osservato tutti gli intimi cambiamenti di una particolare foresta nell’arco di decenni.

Il concetto di purezza trasmette una certa fragilità. La natura selvaggia non è selvaggia se non è incontaminata. Lo vedo riflesso nella tendenza dei postmodernisti a non parlare di libertà, a leggere qualsiasi tipo di influenza come una forma di corruzione e quindi di elusione della libertà. Così vicini, eppure così lontani, hanno decostruito l’io e trovano la libertà priva di significato perché utilizzano ancora il concetto razionalista e illuminista, basato sulla sovranità, un padrone naturalmente investito del suo dominio. Un altro tipo di libertà abita il mondo in cui l’io esiste solo attraverso le sue relazioni, e la libertà di uno non finisce ma inizia con la libertà di un altro.

Trovo un’altra eco della purezza nel pensiero dei primitivisti, che credono che la libertà e la selvatichezza siano finite con un’invenzione o un’altra. E si aggira anche nel pensiero dei “back-to-the-landers”, che pensano che la natura non esista nelle città, né il capitalismo nelle campagne.

Il mio piccolo bosco, trascurato, inquinato, eroso, giovane e delimitato, mi ha salvato la vita. Mentre i miei compagni di scuola imparavano a essere popolari, a vestirsi bene e a giocare a calcio, io imparavo la vita. Tutta questa orribile farsa non sarebbe mai valsa la pena per me senza questo. E la natura selvaggia che mi ha insegnato è cresciuta probabilmente nell’arco di soli settant’anni, dalla Grande Depressione in poi, su quelli che prima erano terreni agricoli, tagliati dagli inglesi almeno duecento anni prima.

La natura selvaggia è dappertutto, e si oppone incessantemente. L’unica cosa di cui ha bisogno sono le crepe. In città, in campagna, tutto impoverito da secoli o millenni di progresso, la natura selvaggia e la libertà sono forze attive. Chi dice che non c’è un esterno al capitalismo non parla mai dell’erba, del granchio o dei passeri. Hanno quasi ragione, ma c’è una piccola, infinita cosa che dimenticano, ed è la più importante di tutte.

Lo scopo degli anarchici è distruggere. Non abbiamo nemmeno bisogno di distruggere tutto. Confusi dalle parole, avremo difficoltà a capire cosa si intende esattamente per tutto. Dobbiamo solo distruggerne una quantità sufficiente, creare abbastanza crepe da far filtrare la luce del sole e la pioggia fino alla povera polvere rimasta sotto, abbastanza da impedire alla macchina di ricomporsi, e la natura farà il resto.

Se vogliamo ancora vivere dopo tutti questi orrori, possiamo anche preoccuparci di coltivare ciò che ricresce, nel modo in cui i castori o persino i cervi modellano il loro habitat. Possiamo farlo come giardinieri, come esseri umani, come esseri che scelgono di vivere. La tradizione anarchica suggerisce anche una serie di meravigliosi mondi futuri, di cui vale la pena parlare. Ma l’anarchismo è il figlio bastardo della civiltà, con il cordone ombelicale che pende lacero, con un altro scopo in mente per il pugnale stretto tra i denti. Il destino dell’anarchismo è quello di uccidere un futuro certo. Essere incaricati di distruggere e rimpiazzare implica un potere enorme, anche per una vocazione che rinuncia al potere.

I giochi di immaginazione mi venivano spontanei, non richiesti, mentre vagavo nella foresta. Gli altri bambini giocavano ai videogiochi e, anche se non mi sono mai tenuto del tutto lontano da questa attività, ho notato subito una relazione inversa tra l’immaginazione e il consumo di mondi immaginari. Ho sempre preferito i giochi per computer ai videogiochi, più erano aperti e meglio era, soprattutto quelli che permettevano lo sviluppo dei personaggi e l’esplorazione di altri universi. Tuttavia, avevano un effetto di intorpidimento. Ho scoperto che con un bastone, e magari con uno o due amici, nei boschi potevo fare molto di più, e dopo mi sentivo esaltato, vivo, sveglio di notte a pensare a quali avventure mi avrebbe riservato il giorno dopo.

Uno dei più grandi blocchi di cemento che noi anarchici dobbiamo rompere è quello che è stato versato sulla facoltà dell’immaginazione e che viene versato ogni giorno di più. Le persone che non riescono a immaginare altri mondi sono già morte. Sono zombie, non saranno mai rivoluzionari. Gli anarchici che non riescono a immaginare altri mondi potrebbero anche rotolarsi e marcire. Tutte le loro parole sono moribonde, fetide. I nichilisti che confondono volontariamente la stesura di progetti con l’esplorazione di futuri immaginari, devono ricorrere a pirotecnici artifici per coprire la loro fondamentale fragilità.

E mentre ognuno ha il proprio metodo per sopravvivere alla repressione, io trovo che immaginare altri mondi possa interrompere l’egemonia di questo mondo. Quando mi trovo di fronte a una fila di poliziotti antisommossa, a volte mi viene da ridere, perché quello che vedo sono cadaveri. Amo i politici nei loro bei vestiti, perché sono gli stessi che indossano quando sono costretti, sotto la minaccia delle armi, a ripulire i siti Superfund. E quando sono triste per gli amici in prigione, guardo fuori dalla finestra e vedo i giardini dove c’erano le strade, e so che la nostra lotta vale la pena.

L’immaginazione anarchica ha molto da offrire. Ma l’immaginazione radicata nel luogo è ancora più potente, più viva. Tutti i giochi che ho fatto nel mio bosco sono lì ad aspettarmi. E tutte le persone che vivono in un luogo, anche se non osano essere anarchiche, possono immaginare cambiamenti nel loro ambiente che non potrebbero mai nascere da un’ideologia, e che il più intelligente di tutti gli anarchici non penserebbe mai, se non fosse anche lui di quel luogo. Uno dei contributi di un anarchismo anticoloniale e antirazionale è l’importanza che dà al particolare, contro gli schemi astratti e le universalità. Può essere utile che gli anarchici discutano dei livelli di tecnologia, di una visione del mondo rispetto a un’altra, ma solo se si rendono conto che stanno solo giocando. Per il vincitore del dibattito imporre la propria visione al mondo sarebbe la violenza più crudele. Sono milioni i luoghi specifici con cui le comunità umane devono relazionarsi, ognuno diverso dall’altro. La libertà trionferà quando ognuno immaginerà attivamente il proprio ambiente e si rifarà al luogo specifico che lo sostiene.

La foresta chiama anche i nostri spiriti a esultare e a esprimersi, contro i confini di un mondo razionale e materialista, sia nelle sue espressioni dominanti sia nelle teorie dei suoi dissidenti. In modo maldestro, come un bambino che impara a muovere il suo pugno paffuto, ho iniziato a pregare nella mia foresta. Accendevo candele, meditavo e sentivo gli altri esseri viventi intorno a me. Mancando completamente di una guida, mi sono rivolta a libri sul Taoismo, sulla Wicca e sulla spiritualità dei nativi americani. Non sapevo nulla dell’appropriazione culturale (credo di non saperlo ancora), ma comunque i libri sul paganesimo europeo mi sembravano i più appropriati. (Ed essendo su una terra rubata, “appropriato” non è la parola che userei oggi).

Mi viene in mente la recente controversia nel nord-ovest del Pacifico, con un paio di prigionieri della Green Scare e le loro cerchie più vicine che si dilettano con il neopaganesimo norreno e la sua conseguente iconografia crossover e suprematista bianca.

È curioso come alcune persone bianche guardino ai popoli pagani scandinavi per trovare un legame con le tradizioni europee autentiche ed ecocentriche. Se volessi, potrei rivendicare anch’io un legame con queste tradizioni. Alcuni dei miei antenati erano vichinghi e sono diventati agricoltori. Quando ero adolescente ho scolpito la mia serie di pietre runiche e le ho poste nel mio piccolo santuario nella foresta. Da allora mi sono reso conto che la cosa più interessante dei norreni non è il loro buffo alfabeto o il loro dio Prometeo-Cristo appeso a un albero di tasso, ma tutti i modi in cui sono diventati ciò che odio di più di questo mondo. Perché mentire e vederli come puri figli della terra quando il loro marchio di paganesimo li ha resi così suscettibili allo statalismo e all’ecocidio?

Oggi ho a cuore i miei antenati per tutte le loro brutture, i loro errori, i loro orrori. Ho a cuore i miei antenati per il loro puritanesimo, per il loro coinvolgimento nel genocidio, nel KKK, nel disboscamento di un continente e poi di un altro. Ho a cuore queste cose che odio, perché questo è tutto ciò che mi hanno dato, e se non serve come bussola positiva, serve come mappa di un campo minato, avvertendomi di un centinaio di possibili passi falsi.

Perché tanti bambini bianchi, che in generale disprezzano i loro genitori e ignorano i loro nonni, vogliono emulare i loro antenati? Il trauma è sempre il primo passaggio di mano, e sono dannatamente sicuro che la nostra merda non è iniziata con la rivoluzione industriale.

I popoli pagani europei, almeno quelli che popolavano o confinavano con l’Impero Romano, hanno abbattuto le loro foreste e hanno creato molti più Stati di quelli che hanno rovesciato. Rivolgersi a loro potrebbe essere meglio che estrarre i resti delle società colonizzate per fabbricare modelli spirituali, se queste fossero le uniche due opzioni, ma la verità è che esiste già una connessione spirituale ininterrotta tra gli antenati dell’Occidente e i suoi figli moderni e smarriti, e non si trova in nessun libro, perché è scritta in tutto il mondo. La nostra eredità è l’ecocidio, il patriarcato, il monoteismo, lo Stato, l’alienazione, insieme a un centinaio di storie semidimenticate di ribellione contro queste forze.

Capisco il bisogno di autenticità, ma chiunque lo senta dovrebbe intenderlo come una bandiera rossa, che ci mette in guardia dall’artificiosità intrinseca della ricerca dell’autentico.

Il recente racconto anarchico per bambini “Il figlio della strega” offre una sorta di storia negativa dell’Occidente. Invece di proletariato e borghesia, le classi che propone sono quelle degli sradicati e dei senza radici, che io leggo come popoli colonizzati che lottano per riaffermare il loro stile di vita, e persone che sono state colonizzate così completamente e così a lungo da averne cancellato persino il ricordo. Quest’ultima categoria comprende certamente me e la maggior parte delle persone che conosco. Non abbiamo più spiritualità, ma solo il bisogno di averla.

Mi viene da pensare che la maggior parte dei compagni che cercano di soddisfare questo bisogno cadono in alcuni presupposti razionalisti su sé stessi e sulla vittoria. Vale a dire che una persona è semplicemente un corpo e una vita. In realtà ognuno di noi è il nesso di un milione di esseri e l’erede di mille generazioni, le cui vite si svolgeranno in molte vite a venire. Quale idiota potrebbe pensare che la vita finisca con la morte cerebrale? Ci vorrebbero anni di educazione per rendere una persona così ignorante.

Di fronte al problema della spiritualità, tutti noi senza radici pensiamo di dover e poter trovare una soluzione in una sola generazione, in un solo corpo. Ma come potrebbe essere? Se una foresta secolare, per definizione, non può nascere in una sola generazione, come può una sola generazione in una comunità umana creare una spiritualità sana e centrata sulla terra?

Non mi fido delle persone – almeno non dei bianchi o delle persone occidentalizzate – che parlano di spiritualità. Penso che sia un impulso sano. Forse quelli di noi che stanno iniziando, non da zero ma dalla miseria che ci hanno lasciato i nostri antenati, non dovrebbero mai parlare in pubblico di spiritualità, né fare sfacciatamente riti collettivi. Forse dovremmo vergognarci della nostra spiritualità e parlarne solo sottovoce. Forse non è ancora abbastanza forte per uscire allo scoperto. Forse dovremmo tentare solo il più timido dei passi avanti, confidando che, se suggeriamo un vago abbozzo, la generazione successiva sarà in grado di riempire alcune sfumature più scure, di parlare della propria spiritualità nascente un po’ più forte, e così via fino a quando alla fine avremo qualcosa di solido che potrà essere trasmesso con fiducia.

Potrei parlare delle volte in cui i cervi mi hanno svegliato nel cuore della notte, sbuffando e sbattendo contro di me mentre ero sdraiato nel mio sacco a pelo, o della notte in cui ho sentito i contorni di tutta la terra per mezzo miglio in ogni direzione come un’estensione del mio stesso corpo, mentre ascoltavo raffiche su raffiche di un vento potente che correva sopra lo stagno, oltre la scogliera, attraverso la palude, su per la mia collina, e poi improvvisamente si schiantava tutto intorno a me, facendo oscillare gli alberi avanti e indietro e lasciandoci in silenzio fino alla raffica successiva. Ma non sono bravo a parlare di queste cose. Erano momenti molto privati.

So che anche molti dei miei amici hanno vissuto momenti del genere, che non hanno mai condiviso con me. So anche che quando tengo in braccio il bambino di un amico o mi prendo cura di un bambino, non c’è limite alle storie che posso raccontare o alle canzoni che posso cantare. È buffo il modo in cui gli adulti parlano di magia con i bambini ma con nessun altro. Non stanno semplicemente approfittando della credulità dei bambini per raccontare una storia che nessun altro ascolterebbe. In realtà, stanno confidando a questi bambini una parte di loro stessi che ha bisogno di esistere, ma che non hanno la fiducia necessaria per coltivare da soli. Il ciclo diventa infinito quando ci viene insegnato a non imparare mai da ciò che i bambini sanno fare meglio.

Questa volta possiamo farlo in modo diverso. Possiamo raccontare i nostri segreti ai nostri figli, parlare loro di magia e di spiriti, condividere la conoscenza privata di altri mondi che tante persone ignorano e, man mano che crescono, coprirgli le spalle invece di picchiarli, onorare la loro saggezza e dare loro la nostra fiducia, in modo che, crescendo, possano fidarsi delle loro esperienze e parlare un po’ più forte, osare andare dove noi non potremmo.

Pubblicato da Stefano

Chi sono? Domanda troppo difficile a cui rispondere. Per farla il più semplice possibile mi chiamo Stefano, sono una creatura selvatica di 28 anni e da che ho ricordo amo stare all'aperto, a contatto con l'ambiente naturale e soprattutto camminare nei boschi e in montagna. Il grande gioco della vita mi ha portato sui sentieri dell'educazione in natura e della pedagogia del bosco, ambito in cui sono attualmente in formazione. Prima di questo ho fatto tante cose, alcune più interessanti di altre e ho seguito quasi sempre i miei interessi, le mie passioni e la mia motivazione intrinseca, dall'antropologia alla controcultura punk per citare due degli ambiti che mi hanno formato come individuo negli ultimi dieci anni della mia vita, sempre accompagnato da una profonda tensione anarchica, una spontanea coscienza ecologista, una radicale critica alla civilizzazione e la curiosità verso tutte le forme in cui si incarna e manifesta la selvatichezza e il non-addomesticamento dell'essere umano, degli animali e della natura.