Il Rifiuto dell’Economia nelle Società Primitive

Il Rifiuto dell’Economia nelle Società Primitive

“L’aspetto caratteristico dell’economia primitiva è l’assenza di qualunque desiderio di trarre profitto”  R.Thurnwald, Economics in Primitive Communities

Le società primitive, ovvero quelle che rifiutano la Stato (riprendendo la tesi di Pierre Clastres), sono state storicamente descritte come società che ignorano l’economia di mercato e che sono immesse in un’esistenza di miseria e arretratezza dominata dall’economia di sussistenza. L’idea classica di economia di sussistenza, retaggio della tradizione e della prospettiva evoluzionista ed etnocentrica occidentale, implica che le società primitive e selvagge, senza Stato, sarebbero incapaci di produrre eccedenze in quanto totalmente occupate nella produzione del minimo indispensabile che garantisce loro la sopravvivenza. E’ questa definizione che costruisce l’immagine, storicamente diffusa e ampiamente accettata ma antropologicamente errata, della condizione di completa miseria della vita dei selvaggi. La domanda sorge quindi spontanea: l’economia delle società primitive è realmente un’economia di sussistenza?

Iniziamo cercando di capire cosa si intende con “economia di sussistenza”. Solitamente con questa definizione si intende affermare che questo tipo di economia permette ad una società di sopravvivere (sussistere per l’appunto), affermando di conseguenza che questa società impiega la totalità delle sue forze per produrre il minimo indispensabile per la sussistenza dei propri membri. Appare banale liquidare la definizione di economia di sussistenza sottolineando la sua natura di economia priva di mercato e incapace di produrre eccedenze, perchè in questo modo non si risponde alla domanda sopra posta e non si giunge alla comprensione dell’economia all’interno delle società primitive. L’idea, ancora una volta evoluzionista ed etnocentrica, che il selvaggio impieghi la maggior parte del suo tempo e la quasi totalità delle sue energie produttive per garantirsi un’esistenza di miseria è perdurata nei secoli, andando di pari passo con un altro pregiudizio altrettanto diffuso e contradditorio, ossia l’idea della natura pigra e oziosa dell’uomo primitivo. Alla luce di questi due pregiudizi antitetici, dobbiamo sceglierne dei due uno: “o l’uomo delle società primitive vive in economia di sussistenza e passa la maggior parte del suo tempo alla ricerca di nutrimento; o non vive in economia di sussistenza e può dunque permettersi di oziare a lungo…” (P.Clastres, La Società Contro lo Stato).

Svariate ricerche etnografiche ed antropologiche, nonchè la quasi totalità delle narrazioni dei primi esploratori europei, concordano sul fatto che la maggior parte dei popoli selvaggi (siano essi agricoltori o cacciatori-raccoglitori), tanto nel continente americano quando nel resto del globo, dedicavano in realtà poco tempo all’attività lavorativa senza per questo morire di fame o lottare quotidianamente per sopravvivere in una condizione di miseria e indigenza. Detto questo, l’economia di sussistenza delle popolazioni primitive collide con la convinzione errata, fondata dal pensiero evoluzionista-etnocentrico, che tali società perdurino in uno stato di ricerca affannosa e a tempo pieno del minimo indispensabile al proprio nutrimento e alla propria sopravvivenza. Si può quindi affermare che una economia di sussistenza non implica che la maggior parte del tempo di una società primitiva venga dedicato all’attività produttiva e di ricerca di nutrimento. Ed ecco che crolla il mito evoluzionista, preso a verità assoluta dalla civiltà occidentale fondata su due assiomi, quello dell’impossibilità dell’esistenza della società senza lo Stato e quella del bisogno imperativo di lavorare, dell’esistenza miserabile del selvaggio collegata all’idea di economia di sussistenza. La definizione di economia di sussistenza inizia così a perdere la sua connotazione negativa di arretratezza e inferiorità.

Definendo quindi l’organizzazione economica delle società primitive come “economia di sussistenza” non si sta più sottolineando un difetto di tali società, la loro mancanza o la loro condizione di arretratezza e miseria, bensì, al contrario, tale definizione della vita economica selvaggia intende marcare il rifiuto di produrre un eccesso inutile che domina queste società. Disponendo di tutto il tempo necessario per sovraprodurre, in realtà le società primitive potrebbero, se solamente lo volessero, aumentare la produzione di eccedenze e di beni e l’accumulazione di un surplus di prodotti. Riprendendo ciò che scrive Jacques Lizot a proposito degli Yanomani, possiamo quindi affermare che le società primitive sono società che rifiutano il lavoro e rifiutano l’economia di mercato, evidenziando il loro essere, al contempo, società del tempo libero e dell’abbondanza (come le definì Marshall Sahlins nel suo Stone Age Economics).

In questo momento subentra un’ulteriore questione: per quale motivo queste società dovrebbero lavorare e produrre di più di quanto basta alla soddisfazione dei bisogni del gruppo? A cosa servirebbero i beni materiali accumulati? Sostanzialmente, anche se può apparire banale, la sovrapproduzione di eccedenze in una società primitiva non servirebbe a nulla poichè queste società ignorano e rifiutano l’economia di mercato, la ricerca di competizione e di profitto, il lavoro alienato e orientato alla produzione di un surplus. Citando nuovamente Pierre Clastres, dobbiamo innanzitutto realizzare che è sempre per costrizione che gli uomini lavorano oltre il soddisfacimento dei propri bisogni, è sempre a causa di un potere coercitivo che fa la sua apparizione all’interno della società il lavoro alienato. L’uomo primitivo non conosce il lavoro alienato, rifiuta il lavoro e la sovrapproduzione perchè la sua attività produttiva è orientata e limitata semplicemente ai propri bisogni da soddisfare. La società primitiva rifiuta in questo modo di alienare il proprio tempo libero dedicato all’ozio, alle feste, ai banchetti e a tutte quelle attività considerate non produttive, per affaticarsi in un lavoro privo di senso e di scopo, ossia la produzione incessante di eccedenze dalle quali trarre un profitto (caratteristica fondante dell’economia di mercato capitalistica).

Il paradigma evoluzionista e l’etnocentrismo occidentale hanno considerato per secoli (eventi come il colonialismo o l’imperialismo ne sono stati la più brutale conseguenza), e in parte considerano tutt’ora, le società primitive, quelle caratterizzate dall’assenza e dal rifiuto dello Stato, come ferme in una fase embrionale delle società più evolute, ossia le società statuali tipiche dell’occidente moderno. Questa presunta arretratezza nell’evoluzione verso lo stadio finale rappresentato dalla civiltà occidentale, fondata sul dogma della necessità dello Stato e dell’economia di mercato, si manifesta quindi, secondo gli evoluzionisti, sopratutto nella sfera economica delle società primitive. In realtà non si tratta affatto di inferiorità o di arretratezza delle società primitive, ma piuttosto di rifiuto da parte di queste società di far emergere la disuguaglianza sociale tra sfruttatori e sfruttati, rifiutando l’emergere del lavoro alienato e della incessante produzione di beni materiali in eccesso.

Nelle società primitive l’economia non è mai sfera autonoma, non è mai economia politica, ed il lavoro non è mai lavoro alienato, altrimenti si assisterebbe alla divisione del corpo sociale in signori e sudditi, in sfruttatori e sfruttati, in dominatori e dominati e la società non sarebbe più primitiva in quanto emergerebbero le due caratteristiche principali delle società non-primitive, il potere politico coercitivo e la disuguaglianza sociale. Avviandoci alla conclusione di questo articolo, mi ritrovo a citare per l’ultima volta Pierre Clastres: “Si potrebbe dire che le società primitive, in questo senso, sono società senza economia per rifiuto dell’economia.” E’ proprio questa volontà di evitare l’emergere del lavoro alienato e di rifiutare l’economia come sfera autonoma dalla società, e di conseguenza di impedire il manifestarsi della disuguaglianza e della divisione del corpo sociale, che caratterizza le società primitive e la loro economia di sussistenza. Alain Caillè, nel suo Critica della Ragione Utilitaria, sostiene che le società primitive si preoccupavano di assicurare la propria coesione piuttosto che di produrre, e che i selvaggi ricercavano il farniente piuttosto che l’incessante accumulazione di beni materiali. Le Società primitive sono quindi società caratterizzate non dalla mancanza di economia di mercato e di Stato perchè ancorate ad uno stadio inferiore del progresso evoluzionista, bensì società che rifiutano il lavoro alienato e la produzione di eccedenze e che lottano incessantemente contro l’emergere de “il più gelido di tutti i mostri”, lo Stato.

 (Guarani-Kaiowa people)

 

Questo articolo vuole essere una sorta di approfondimento di un tema ben più ampio che avevo già provato ad analizzare in un passato articolo (che lascio di seguito per chi volesse approfondire), ossia la nozione di menzognera dell’homo oeconomicus primitivo contrapposta all’uomo in quanto essere sociale, quindi homo sociologicus che rigetta la mentalità economica di massimizzazione del profitto. Come sostiene Marshall Sahlins: “l’economia è una categoria culturale, non comportamentale.”

“La Menzogna dell’Homo Oeconomicus” – Economia, Scambio e Pratica del Dono

 

Pubblicato da Stefano

Chi sono? Domanda troppo difficile a cui rispondere. Per farla il più semplice possibile mi chiamo Stefano, sono una creatura selvatica di 28 anni e da che ho ricordo amo stare all'aperto, a contatto con l'ambiente naturale e soprattutto camminare nei boschi e in montagna. Il grande gioco della vita mi ha portato sui sentieri dell'educazione in natura e della pedagogia del bosco, ambito in cui sono attualmente in formazione. Prima di questo ho fatto tante cose, alcune più interessanti di altre e ho seguito quasi sempre i miei interessi, le mie passioni e la mia motivazione intrinseca, dall'antropologia alla controcultura punk per citare due degli ambiti che mi hanno formato come individuo negli ultimi dieci anni della mia vita, sempre accompagnato da una profonda tensione anarchica, una spontanea coscienza ecologista, una radicale critica alla civilizzazione e la curiosità verso tutte le forme in cui si incarna e manifesta la selvatichezza e il non-addomesticamento dell'essere umano, degli animali e della natura.