“Tu non avrai il desiderio del potere, tu non avrai il desiderio di sottomissione” – Tortura e Società Primitiva

“Tu non avrai il desiderio del potere, tu non avrai il desiderio di sottomissione” – Tortura e Società Primitiva

“Voi siete dei nostri. Ciascuno di voi è simile a noi, ciascuno di voi è simile agli altri. Ciascuno di voi occupa fra noi lo stesso spazio e luogo: li conserverete. Nessuno di voi è meno di noi, nessuno di voi è più di noi. Non potrete dimenticarlo. Gli stessi segni che vi abbiamo lasciato sul corpo, ve lo ricorderanno continuamente.”

Questo è probabilmente l’insegnamento più importante che la società primitiva imprime ai propri membri. Ma quando parlano di “segni che vi abbiamo lasciato sul corpo”, a cosa fanno riferimento i “selvaggi”? Sarà questa la domanda a cui cercherò di rispondere (riprendendo le tesi di Pierre Clastres esposte nel saggio “Della tortura nelle società primitive”) in questo articolo incentrato sulla pratica del rituale di iniziazione all’interno delle società primitive e sulla funzione sociale della tortura.

La maggior parte delle società primitive conferisce grande importanza ai riti di passaggio attraverso i quali i giovani completano il loro ingresso nell’età adulta, divenendo membri effettivi della comunità. I rituali di iniziazione, che rappresentano quindi l’essenza della vita sociale della comunità primitiva, coinvolgono quasi sempre il corpo dei giovani, corpo che diventa il mezzo di acquisizione di un sapere che la tribù insegna ai giovani; perciò il rito di iniziazione incarna la presa di possesso del corpo dei giovai da parte della società con la funzione di trasmettere a loro un insegnamento da interiorizzare.

Spesso nelle società primitive l’essenza del rituale di iniziazione è la tortura, pratica mediante la quale il corpo dei giovani viene sottoposto al dolore e alla sofferenza, perchè il primo scopo, anche se non quello principale, della tortura è “far soffrire l’iniziando”; sofferenza che risulta sempre essere insopportabile per chi la subisce, anche se l’iniziando deve sopportarla in silenzio. Nonostante questo, il fine della tortura (che all’interno della società primitiva è sempre volta alla ricerca dell’intensità della sofferenza inflitta) non è semplicemente quello di dimostrare il valore dell’individuo nel sopportare la sofferenza ed il dolore, bensì si fa portatrice di una funzione socializzante-pedagogica. Il fine della sofferenza inflitta dalla tortura è infatti quello di insegnare qualcosa ai giovani che si apprestano a diventare membri a pieno diritto della comunità.

Dopo il rituale di iniziazione, e quindi dopo la tortura, passato il dolore, rimangono solamente le tracce di quella sofferenza impresse sul corpo dei giovani sotto forma di cicatrici e ferite. In questo modo la tribù sottolinea il fine principale del rito di iniziazione, ossia quello di marchiare il corpo dei giovani. La società imprime il suo marchio sul corpo dell’individuo sottoposto al rito di passaggio; il marchio rappresenta l’appartenenza dell’individuo al gruppo. Così facendo il corpo diventa memoria dell’insegnamento che la tribù imprime sulla carne dell’individuo, insegnamento che si può sintetizzare così: “tu sei dei nostri e non lo dimenticherai:”.

Possiamo quindi concludere senza cadere in errore che la funzione della tortura è la volontà di manifestare l’appartenenza sociale dei giovani alla tribù. A questo momento è lecito domandarsi (come fece Clastres) se sia necessario passare per la tortura per far si che l’individuo della società primitiva riconosca il proprio valore e si ricordi del valore della coscienza tribale. E l’unica risposta possibile a questa domanda non può limitarsi ad una affermazione o una negazione, bensì deve riconoscere che la funzione principale del rituale di iniziazione (e quindi della tortura) è l’insegnamento che la comunità primitiva impone ai suoi membri: “Tu non vali meno di un altro, tu non vali più di un altro”. Ecco il sapere che la tribù rivela ai propri membri più giovani attraverso i riti di iniziazione. Ecco il sapere che ogni individuo della società primitiva deve interiorizzare attraverso la sofferenza della tortura.

La società primitiva in questo modo detta la sua legge ai propri membri, utilizzando come mezzo sul quale imprimere questa legge fondamentale che fonda la vita sociale della comunità, i corpi e la carne degli stessi membri della società. Questo perchè la legge, inscritta sul corpo e nella carne degli membri della comunità, manifesta il completo rifiuto della divisione sociale da parte della società primitiva; il rifiuto di un potere separato dalla società che farebbe emergere la divisione e la gerarchia, eventi nefasti da sempre contrastati ed evitati dai selvaggi, all’interno della società primitiva. Citando direttamente Clastres: “la legge primitiva, insegnata crudelmente, è un divieto di disuguaglianza, di cui ciascuno si ricoderà.”

Avviandoci alla conclusione di questo articolo, se accettiamo i parametri dell’antropologia classica, le società primitive (o arcaiche che dir si voglia) sono caratterizzate dalla mancanza di scrittura, che implica di conseguenza l’assenza di una legge scritta separata dalla società, una legge che si fonda sulla relazione di comando-obbedienza e quindi sulla divisione sociale, in sintesi la legge dello Stato. Ed è appunto scongiurando l’emergere di questa legge separata e lontana dalla società stessa, fondatrice della disuguaglianza e della gerarchia, che la legge primitiva si pone i netta opposizione alla legge dello Stato. Citando nuovamente Clastres: “Il marchio sul corpo, uguale su tutti i corpi, enuncia: tu non avrai il desiderio del potere, tu non avrai il desiderio di sottomissione“. E questa legge indivisa può esprimersi solamente in uno spazio a sua volta indiviso, ossia il corpo stesso dei membri della comunità. Per concludere risulta quindi evidente come la società primitiva, impedendo la separazione tra società e legge, cerca di scongiurare il rischio dell’emergere della disuguaglianza, della gerarchia e di quella relazione di comando-obbedienza che fonda il potere politico delle società dello Stato.

Pubblicato da Stefano

Chi sono? Domanda troppo difficile a cui rispondere. Per farla il più semplice possibile mi chiamo Stefano, sono una creatura selvatica di 28 anni e da che ho ricordo amo stare all'aperto, a contatto con l'ambiente naturale e soprattutto camminare nei boschi e in montagna. Il grande gioco della vita mi ha portato sui sentieri dell'educazione in natura e della pedagogia del bosco, ambito in cui sono attualmente in formazione. Prima di questo ho fatto tante cose, alcune più interessanti di altre e ho seguito quasi sempre i miei interessi, le mie passioni e la mia motivazione intrinseca, dall'antropologia alla controcultura punk per citare due degli ambiti che mi hanno formato come individuo negli ultimi dieci anni della mia vita, sempre accompagnato da una profonda tensione anarchica, una spontanea coscienza ecologista, una radicale critica alla civilizzazione e la curiosità verso tutte le forme in cui si incarna e manifesta la selvatichezza e il non-addomesticamento dell'essere umano, degli animali e della natura.